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2 Febbraio 2009 10:31

Maurizio Chierici: Davos e Belem: così lontani, così inutili

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di Maurizio Chierici

Certe foto fanno capire più di mille parole. Difficile indovinare quanto sono interessati a una dignità condivisa i manager di Davos che si divertono a fare i profughi per provare ( giocando ) se é scomodo abitare sotto le tende della miseria. O se i profughi- profughi che arrivano a Belem per denunciare fame e paura, dignità rubate, insomma malattie endemiche delle quali non si guarisce per la maledizione del dormire attorno alle casseforti che nutrono la felicità dei mercati, se almeno loro hanno capito come obbligare i padroni del mondo ad accettare discorsi normali a proposito di petrolio, gas, biodisel. Ma con la crisi che avvilisce le vetrine, la dignità delle pance vuote deve portare pazienza. Impossibile mettere assieme protagonisti così diversi. Ecco l’idea di contrapporre ai sussurri del salotto svizzero, l’incontro ballato di chi spera di uscire dal buio. L’anticamera che divide le due strategie é lunga diecimila chilometri e gli appuntamenti diventano un palcoscenico dove gli attori si esibiscono tenendo d’occhio la bella figura da proiettare nei paesi dove governano. Tremonti fa notare che il vecchio capitalismo va cambiato. Geniale: diventa l’ economista che il mondo ci invidia. Chavez annuncia che un mondo diverso è possibile. Vecchia speranza che i popoli accorsi in Amazzonia salutano ogni anno come futuro prossimo, ma ogni anno il futuro viene rimandato di un po’. Belem ha riproposto senza grandi spese la giustizia sociale di chi non si arrende. L’entusiasmo dei diseredati non costa niente. Ma mettere in fila a Davos governi coronati e i padroni degli affari costa più dello sfamare i piatti vuoti di Gaza. Il discorso vale per ogni G8 o assemblee Fao a Roma o villa d’Este sul lago di Como. Trionfi babilonesi. Nell’era delle comunicazioni lampo, organizzare le messe cantate dell’economia è utile se le decisioni diventano concrete. Invece rimasticano ( censurando ) l’intimità delle confidenze che ogni giorno i protagonisti incrociano al telefono e sui tasti internet. Al G8 di Genova Berlusconi aveva promesso di raddoppiare l’aiuto ai popoli della disperazione. Applausi. Spente le luci, dimezza i centesimi che già non bastavano. La novità socialmente eccitante che uscirà dal prossimo G8 della Maddalena proclamerà Berlusconi l’ anfitrione più squisito del mondo. Il resto, robetta. Bisogna essere sinceri: é bello ascoltare i propositi di chi condivide un progetto comune. Ma se il forum di Belem occupava le piazze di New York, Tokyo o Parigi, attorno ai palazzi di chi comanda, forse qualcosa poteva cambiare. Invece la disattenzione sociale dei sordi non smetterà di perseguitare i senza nome. Europa, New York, Tokyo e Mosca continueranno a promettere senza fare niente. Belem, Porto Alegre, le afriche e le asie degli stracci continueranno ad invocare da lontano ma nessuno cambierà le regole. E la grande informazione si fermerà al colore. Al prossimo meeting, o alla prossima guerra, si vedrà. Pinto, difensore dell’Amazzonia Al forum di Belem è mancato il protagonista storico della lotta in difesa degli indigeni e dell’Amazzonia. Risponde al telefono Lucio Flavio Pinto: < Mi avevano offerto di partecipare al dibattito di due comitati, ma ho rifiutato. Il Forum è stato artificialmente istituzionalizzato attorno al PT, partito di Lula. Succedono cose strane: dalle capitali del Sud arrivano oratori che spiegano agli stranieri quali sono i problemi e le necessità dell’Amazzonia. Sanno ciò che i piccoli politici locali, raccoglitori di voti, vogliono far sapere. Il mio sospetto che il Forum serva come cassa di risonanza per partiti che pensano agli appuntamenti elettorali. L’alternativa a Davos mi sembra sempre più artificiosa >. Luci Flavio Pinto è un giornalista e scrittore: vive e lavora a Belem. Da trent’anni si batte contro la distruzione della foresta rischiando la vita. Ha perso il posto all’università, al giornale O Liberal del quale era editorialista. Via anche dalla grande Tv dove ogni sera faceva il punto politico ed economico sull’Amazzonia. Sopravvive scrivendo da solo il quindicinale < Jornal Pessoal >. Inchieste che bruciano. Per un po’ hanno provato ad ucciderlo. E Lucio Flavio spedisce la moglie e le figlie a San Paolo per continuare da solo nella lotta che segna la sua vita. La protesta internazionale ( anche la CGIL italiana ha raccolto migliaia di firme ) spegne le armi degli assassini comandati ad eliminarlo, e il grande potere cambia strategia: trascina Lucio Flavio Pinto nei tribunali pretendendo penali miliardarie. Nessun avvocato del Parà ha accettato di difenderlo e il sociologo Pinto è tornato all’università, si è laureato in legge e si difende da solo. Dopo l’assassinio di Chico Mendes tira avanti in semi clandestinità senza smettere di denunciare i disastri. Oltre la rivista Jornal Pessoa scrive libri che raccontano il saccheggio amazzonico. Alla fine degli anni ‘80 é stato il primo a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla distruzione programmata dalle multinazionali. E poi saggi apparsi su Washington Post, Le Monde Diplomatique. < Attenzione ogni giorno si brucia una parte della foresta grande come ventisei campi da calcio. Fuoco che apre le porte alle piantagioni di soia, o dighe che fabbricano energia per centrali elettriche delle quali beneficiano gli speculatori stranieri, inquinando i fiumi per centinaia di chilometri: solventi, mercurio e inquinamento dovuto alla vegetazione che marcisce sott’acqua. Pesci e tartarughe d’acqua dolce galleggiano senza vita. Indigeni prostrati da malattie sconosciute. Ma Brasilia è lontana, i politici non sanno o non vogliono sapere. Il presidente Lula ha provato a mettere ordine, ma i governi degli stati amazzonici rispondono: mancano i soldi per controllare i controllori. Tutto continua come prima >. Il suo coraggio è stato premiato negli Stati Uniti, in Francia e in Italia dove ha ricevuto, dal presidente Scalfaro, il premio Colomba d’Oro della Pace. Erano gli anni dove a Brasilia sedeva Cardoso. L’ambasciatore brasiliano a Roma non ha trovato il tempo di mandare un funzionario per rappresentare il paese. < Ciò che impressiona chi visita il Brasile sono i contrasti >, racconta Lucio Flavio. < E’ uno stato continente con 8,5 milioni di chilometri quadrati e 190 milioni di persone. Le contraddizioni sono brutali. Il suo prodotto lordo è il dodicesimo del mondo ma è anche il paese al settimo posto nella classifica della peggiore distribuzione delle ricchezze. 40 milioni di brasiliani vivono sul filo della povertà assoluta esclusi dalla distribuzione della produzione nazionale. Malgrado la crisi continua ad aumentare, insomma le cose vanno bene: esportazioni per 120 miliardi di dollari. Eppure 40 milioni sopravvivono grazie ai bonus del governo federale o alla Borsa Famiglia inventata da Lula, specie di sussidio per mandare i figli a scuola: è una fetta della popolazione assolutamente esclusa da ogni ripartizione del reddito nazionale. Bolsa Famiglia ha un fondo di 17 miliardi di dollari che hanno garantito la rielezione di Lula a dispetto dalle tensioni sociali, violenza e criminalità. Belem, metropoli dell’Amazzonia ha accolto gli ospiti della nuova versione del Foro Sociale Mondiale. Belem è lo specchio delle contraddizioni. Il viaggiatore solidale che sbarca nel nuovo aeroporto internazionale ha l’impressione di arrivare a Barcellona, ma per raggiungere l’albergo attraversa un’enorme spazio metropolitano sporco, precario, insalubre, povero. La Baixada, quartiere delle terre basse sotto il livello del mare, é soggetto a continue inondazioni. La pioggia cade tutto l’anno e il flusso delle maree che risalgono il rio delle Amazzoni la sommergono ogni sera con sei metri d’acqua. Nella baixada vivono migliaia di persone senza niente ed è uno dei problemi che angoscia la città: pantano mai drenato, ogni tipo di malattie avviliscono la capitale del Parà che é regione estesa come la Colombia, un milione e 200 mila chilometri quadrati, 7 milioni di abitanti. Belem sta per compiere 400 anni: capitale dell’est mentre Manaus è la capitale occidentale dell’Amazzonia. Nell’800 un tecnico straniero pensava di convogliare le acque in modo da trasformarla in una Venezia tropicale. Ma non si è fatto niente. Chi abita nei quartieri abbandonati vive nell’aria puzzolente, virus e malattie. L’abbandono è legato agli interessi di chi governa lo stato e ai legami tra politici e clienti. Nelle rincorse elettorali viene promessa la soluzione per il dramma della baixada, opere gigantesche che gli amici costruiranno e gli amici ricambiano la gentilezza organizzando raccolta di consensi e voti. Se ne incaricano capi bastone elettorali e il fetore morale delle loro promesse non mantenute è simile al fetore che avvolge i quartieri. Il risanamento di ogni area presuppone l’espulsione di chi vi abita, costretto a periferie ancora più disastrose. Cancerose, direi. Crescono palazzi che diventano muraglie. I partecipanti al Foro Mondiale scoprono costruzioni gigantesche: frenano i venti dell’oceano che ammorbidivano il calore, soprattutto attenuavano gli effetti della combinazione umidità-canicola. Palazzi che si alzano su terreni una volta abitati da emarginati, infinità di torri di vetro alte 40 piani. Prezzi impossibili al metro quadrato, fra i più cari del Brasile. Un modo – si dice – per isolare i proprietari fortunati dalla miseria circostante. Non è senza motivo che Belem ostenti le più larghe favelas orizzontali: 130 mila abitanti raccolti attorno a niente. Suburbi attraversati da passaggi impropriamente definiti strade. Case precarie, non esistono servizi. Chi le abita non lavora. Alto consumo di alcol, droga. Violenza selvaggia specialmente nel fine settimana. Basta sfogliare i tre giornali della città per scoprire ogni mattina dodici pagine di interventi della polizia. Attraversare quartieri come Ciudade Nova, Benguì, Jderlàndia, è come attraversare Bagdad o Calcutta, aria di guerra non dichiarata. Ogni tre abitanti in età di lavoro solo uno lavora. Gli altri si arrangiano con impegni occasionali nell’economia clandestina. Essere clandestini vuol dire fare il venditore ambulante senza permesso, sfidando la legge, oppure entrare nei plotoni del crimine: pistoleri protagonisti dei delitti quotidiani. Il caos di Belem nasconde decine di schiavi sfuggiti ai guardiani delle piantagioni dove da anni lavorano fuori dal mondo. Su dieci che provano a fuggire solo tre riescono ad eludere la caccia dei cani e delle polizie locali corrotte come ai tempi della dittatura militare. Chi viene catturato è torturato davanti a chi non ce l’ha fatta a scappare. In una fattoria dove ho accompagnato giornalisti stranieri – anche tu Maurizio eri fra loro – sono in bella mostra orecchie, dita, addirittura una mano, immersi nella formalina di vasi ammonimento: ai nuovi arrivati, reclutati con la promessa di paghe favolose, vengono mostrate le reliquie come avvertenza: ecco cosa è successo agli infedeli che hanno provato ad imbrogliare i proprietari della fattoria. Che non è un ‘ pezzo di terra ‘. Centinaia di chilometri. Quattro o cinque milioni di ettari rubati al demanio dello stato e lo stato non può mettere ordine. I governatori oscurano le denunce. Appartengono a partiti che appoggiano il partito di Lula nel parlamento di Brasilia e Lula ha le mani legate. Accanto a Belem, la città di Abaeteuba viene considerata la Calì dell’Amazzonia, nodo strategico nel traffico della droga. Due anni fa il nome di Abaeteuba ha fatto il giro del mondo. Una ragazza di 15 anni arrestata per aver cercato di rubare qualcosa, è stata chiusa in cella assieme a venti uomini: un mese di stupri e violenze. Nessun poliziotto e nessuna autorità sono intervenute per fermare gli aggressori. Nessuno li ha denunciati e la voce di una ragazza è poca cosa. Ha trovato il coraggio una sola persona, ma era tardi, ormai. Finalmente la ragazza è stata liberata; riceve un aiuto economico per vivere nascosta. Chi l’ha violentata non perdona la denuncia. La città sta attraversando un momento generalizzato di insensibilità. Nessuno si meraviglia o si indigna. E non c’ è speranza che la situazione possa cambiare dopo il Social Forum. Nessuno ha in mente di svuotare le paludi, costruire canali come si pensava più di un secolo fa. Recife, capitale del nord est qualcosa ha fatto: ponti e corsi d’acqua. Ma a Belem il potere è nelle mani di due gruppi in guerra fra loro, chi vince e chi perde, il resto della gente non esiste. Il risultato è la dispersone degli investimenti, tanto denaro speso per niente e il distacco tra bisogni reali, sempre urgenti, e gli intrighi del confronto politico, non tengono conto delle necessità della popolazione meno felice. Negli ultimi anni del secolo scorso Belem aveva cercato un futuro industriale. Si sono aperte strade per integrare questa Amazzonia al resto del Brasile. Oggi è un ricordo. Il parco industriale è in bancarotta perché le imprese locali, lontane da ogni capitale, non riescono a competere con le macchine imprenditoriali del Sud. E il distretto industriale si è trasformato in un cimitero industriale. La non speranza continua Più di due terzi dell’economia urbana è legata ai servizi e dipende dal governo locale. Il tempio massonico raccoglie i notabili dei partiti e delle imprese nazionali e straniere. Il Parà è una torta appetitosa: nasconde ricchezze di dimensioni planetarie; bauxite, ferro, rame, nichel, oro. A Tucurì funziona la quarta idroelettrica del mondo e il Parà è il terzo esportatore di energia del Brasile. Ogni 10 dollari che Brasilia incassa, un dollaro viene dal Parà. Ma la legge sopravissuta alla colonia impedisce allo stato di tassare le esportazioni delle materie prime. Migliaia di bovini si imbarcano nelle navi attraccate al porto: vanno in Venezuela o in Libano, carne e cuoio dei quali beneficeranno solo i compratori, non la comunità che vende. Mogano che costa più dell’oro. Sarebbe proibito esportarlo ma Belem vive nell’illegalità. E non si spegne l’incongruenza: bilanci grandiosi convivono con la tragedia di persone concentrate in uno spazio disumano. Questa è la città che ha visto sfilare le marce di solidarietà e protesta contro il mondo dei padroni nei giorni del Social Forum. Osservatori non distratti e non superficiali guardavano senza sapere, quindi senza capire, spezzettati in comitati che rovesciano giustamente l’egemonia di padroni lontani senza sfiorare l’egemonia dei padroni vicini e chi arrivava e guardava non è stato in grado di immaginare in quale modo la città che li stava ospitando potesse diventare più umana e cosa si poteva fare per aiutarne la trasformazione. Ecco perché ho rifiutato di discutere i problemi dell’Amazzonia e delle multinazionali quando le multinazionali e i politici locali umiliano ogni giorno, anno dopo anno, la nostra vita >. mchierici2@libero.it Cortesia dell’Unità

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