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26 Gennaio 2009 09:43

Maurizio Chierici: Vangelo tedesco, Corano italiano: poveri emigranti

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di Maurizio Chierici

< Il principe del Kuwait è d'accordo: nelle moschee si deve parlare italiano >. Dopo l'incontro mille e una notte col signore del petrolio, Fini non ha dubbi. Arabo da proibire alle omelie degli iman che spiegano il Corano in Italia. Prevenzione al terrorismo. Non è chiaro se parla Fini erede spirituale di Almirante o Fini presidente della Camera. Ma è sicuro che Almirante si rivolta nell'eternità. Nella Zurigo anni '70 anche il suo Movimento Sociale aveva combattuto ( pugnale nei denti ) la proposta del dottor Schwarzenbach: mai più messe in italiano per evitare < che nel nome del Signore si propaghino inquietudini e idee sovversive >. Il dottore guidava un referendum che pretendeva l'espulsione dei lavoratori stranieri. 750 mila italiani sparsi nelle baracche stavano < minacciando con una diversità morale pericolosa la casa di Guglielmo Tell >. Elenco di furti, ragazze aggredite, ubriachi < sempre >. L'establishement svizzero si mobilita contro la rabbia delle leghe anti emigranti. < Senza le loro braccia, paese al buio >. Braccia che lo scrittore Max Frisch voleva diventassero uomini. Nell' Italia duemila sono tornate braccia. Attorno a Zurigo un prete friulano- Danilo Burelli – accoglieva ogni domenica centinaia di sradicati. Le prediche dei missionari italiani provavano a consolarli mediando tra la solitudine e l'orrendo privilegio del guadagnarsi il pane lontani da Veneto, Lombardia e Sicilia senza lavoro. In chiesa non arrivavano solo credenti. Alla domenica la folla raddoppiava. Malinconici come foglie al vento < cercano nella spiegazione familiare del Vangelo la forza di un'appartenenza indispensabile alla fragilità che li opprime >. Il cibo era l'altra maniglia alla quale aggrapparsi. Giovanna Meyer Sabino, giornalista dei programmi italiani della Tv svizzera, scrive < La generazione della sfida quotidiana > dove analizza disturbi psicosomatici nutriti dai sapori della nostalgia: olio algerino, vino turco ma anche mal di pancia nell'illusione dell'Italia lontana. Attorno al carbone di Marcinelle, Belgio o a Stoccarda, Germania, chi era partito per fame non rinunciava alla serenità delle preghiere di casa. < La lingua è l'ultima patria possibile. Il male mette radici quando un uomo pensa di essere superiore all'altro >: Josif Bronsky, Nobel della poesia sfuggito a Stalin. Ma la lingua può diventare la gabbia di una patria imposta. Negli anni del Duce ai preti dell'Alto Adige era proibito illustrare le scritture con l'alfabeto che i fedeli usavano da mille anni. Diktat dell'italico bavaglio. Si finiva in galera per calzettoni bianchi e maglioni rosso- sciatore. I colori dell'Austria andavano dimenticati. Dove arrivava il nostro esercito il vocabolario di Roma diventava dogma. Nell'aggressione lampo alla Francia ( 1940 ), Juan le Pins, Costa Azzurra, viene ribattezzata San Giovanni dei Pini. Ridicolo per le nostre barche che galleggiano negli svaghi dell'estate, ma si ride sessant'anni dopo. Sembrava una storia sepolta nei giorni neri. Strisciando torna con nuove disperazioni. ******************************** La lingua ritrovata ******************************** Alma Ata è la capitale decaduta del Kazakistan. Troppo vicina alla Cina, troppo lontana dalle 102 etnie che moltiplicano facce e lingue in un paese più largo dell' Europa. Accompagno l'ambasciatore italiano Malfatti alla messa della domenica nell'unica chiesa cattolica della città. Messa in tedesco. L'emigrazione imposta da Stalin ai contadini scappati per fame dalla Germania del kaiser nella pianura morbida del Volga quando lo zar dominava la Russia fine ottocento; questo trasloco forzato li ha chiusi nella Siberia del Sud: Alma Ata, lembo lontano dalla tentazione che nel 1940 minacciava di aggregare all'avanzata nazista il cuore di due milioni di profughi. E Mosca li disperde tra Akmola e il confine orientale. Inginocchiata di fianco all'altare una vecchia signora ascolta con gli occhi chiusi le parole del predicatore. Risponde alle litanie, si commuove. Il suo viaggio da Akmola ad Alma Ata è stato un viaggio nel tempo. Akmola galleggia nell'acqua. Vuol dire < tomba bianca >, miniere e gulag raccontati dai sepolti dentro: Dostoevskij, Solzenicy, tanti. Grattacieli mignon cominciano ad increspare la linea noiosa della steppa. E Akmola diventa Astana, nome senza fantasia: vuol dire capitale. Due generazioni di tedeschi del Volga sono cresciute fra i cubi neri dei suoi gulag. Vengono abbattuti per far posto agli edifici vetro cemento; crescono con i piedi nel petrolio. Ma le lugubri costruzioni di Stalin sopravvivono nelle periferie. Irriconoscibili. Mancando il tempo per distruggere le malinconie, impacchettano i ruderi sotto facciate che ricordano Parigi. Veli di plastica: finto marmo, finti balconi, finte verande di caffè. Un passo dentro ai portoni è un passo lungo un secolo. Scale buie, un gradino si uno no. L'umidità stacca l'intonaco scoprendo le crepe. Famiglie in coabitazione. Gli ex deportati non possono aprire i vetri soffocati dalle scene del teatro dell'opulenza annunciata. E il passato resta. Da mezzo secolo i cattolici del Volga non ascoltano una predica in tedesco. Si dice messa nello stanzone dei processi contro chi disobbediva. Un sacerdote di Milano - Comunione e Liberazione - ravviva la fede nella sola lingua che conosce, ma la sua missione è più misteriosa. Consola gli italiani prigionieri di guerra: sono rimasti per amore, due o tre ancora in vita, figli, nipoti. La vecchia signora della domenica di Alma Ata aveva ritrovato l'altare dopo anni di preghiere segrete, ma non le bastava. Sentiva il bisogno di riascoltare le prediche dell'infanzia, quel tedesco perduto. E si è decisa per il lungo viaggio. Due giorni di treno, cento lentissimi vagoni, quindici chilometri l'ora ed ecco Alma Ata. Arriva il sabato sera. La domenica mattina aspetta davanti alla porta chiusa della chiesa con la pazienza che la burocrazia di Mosca le ha insegnato. Messa delle sette, messa delle nove, messa di mezzogiorno quando la incontro. Natascia, segretaria della nostra ambasciata, traduce il russo pieno di aghi di chi in casa parla tedesco. Ritrovo le sue parole negli appunti. Non dice niente: solo emozioni. < Adesso posso morire serena >. < Ho pianto ricordando la voce di mio padre quando insegnava a noi ragazzi le stesse preghiere >. Assomiglia ad ogni babuska, nonne con nipotini per strada. Fazzoletto che le copre gli occhi, l'abito sfiora gli scarponi da uomo. Fruga nella borsa alla ricerca del pane e formaggio, pranzo portato da casa. Non si muove. Aspetta il vespro del pomeriggio. Deve trent'anni di silenzio al segretario generale del partito comunista kazako, successore del giovane Breznev nella poltrona del comando. Ordinava alle polizie di reprimere ogni celebrazione religiosa, sotterfugio per organizzare rivolte contro lo stato. Crolla il muro di Berlino e Nazarbaev si proclama < primo presidente liberista dell'ex impero sovietico>. Privatizza radio, giornali, Tv, soprattutto il petrolio. Giornali e Tv alla figlia, petrolio al genero: altre proprietà pubbliche disperse fra cento parenti. Filosofia che spiega l'abbraccio affettuoso con Berlusconi. La Chiesa ortodossa risorge gloriosa. I cattolici sono pochi: liberi di riaprire i luoghi di culto. < Devo al presidente se adesso sono qui >, racconta la signora della chiesa di Alma Ata. < Deve sempre a Narzabaev trent'anni di silenzio ? >. Soli, ai piedi dell' altare. La signora si guarda attorno e non risponde. Anni da dimenticare, ma anni che ritornano nell'ambiguità di altri posti. Italia di Fini, per esempio. mchierici2@libero.it

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