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1 Ottobre 2007 02:29

ROSSO: birmano o cardinale?

1734 visualizzazioni - 2 commenti

di Doriana Goracci

Dopo un accorato appello di tutta la società civile democratica birmana al pontefice dove si chiedeva una Sua pubblica parola, o anche un Suo gesto di incoraggiamento...le attese sono state esaudite in una domenica di fine settembre. Il papa sedici volte Benedetto, ha esternato dalla finestra della sua dimora, tutta la sua più grande trepidazione. Il pontefice ha inoltre prudentemente raccomandato temperanza ai fedeli. Il pontefice ha ordinato ai suoi sacerdoti di non partecipare alle manifestazioni di piazza e alle attivita' politiche in atto in Birmania. Di conseguenza , come atto di generosa partecipazione , oggi nelle chiese cattoliche di Rangoon e' stato letto un bollettino in cui si invitano preti, sacerdoti e suore a non farsi coinvolgere nelle proteste, riconoscendo pero' ai fedeli la liberta' di scegliere come comportarsi. Il bollettino contiene inoltre un appello a tutti i cattolici perche' continuino a pregare e a offrire messe per il bene del paese. Il Papa, che se ne intende di ricchezze, ne ha condannato "l'uso iniquo da parte di chi le adopera per un lusso sfrenato ed egoistico, pensando solamente a soddisfare se stesso, senza curarsi affatto del mendicante che sta alla sua porta". Coerentemente, dal momento che alla sua porta sostano folle acclamanti e sazie di cibo da tutte le parti del mondo, genti che chiedono amore e certo non la carità sul piazzale di San Pietro, il pontefice dopo l'esternazione pacifica e non violenta, si è serenamente ritirato a consumare il pasto domenicale. Ieri a Milano sono sfilati in corteo dicono mille persone, comprese una decina di monaci tibetani : tutti con qualcosa di rosso, che richiama i fuochi autunnali, il rosso della vendemmia, le sagre delle castagne arrostite al fuoco. A dire il vero già nella primavera del 2006 il papa aveva lanciato la nuova politica del color rosso porpora con la Cina, il cui emblema fu il neocardinale Zen, vescovo di Hong Kong. Zen dichiarò con solennità: “Il colore rosso che io vesto significa la prontezza di un cardinale a versare il proprio sangue. Ma non è il mio sangue che è stato sinora versato: è il sangue e le lacrime dei numerosi eroi senza nome della Chiesa ufficiale e sotterranea che in Cina hanno sofferto per essere fedeli alla Chiesa”. Ognuno aiuta come può il movimento rosso. Niente paura, non c'è traccia di sangue. Niente paura, di comunisti nemmeno l'ombra e nemmeno di diavoli e d'inferno. Chissà questi ultimi, i comunisti, i diavoli che nuova politica vestiranno nella stagione autunno-inverno 2007-2008. Doriana Goracci http://reset.netsons.org/modules/news/article.php?storyid=794

COMMENTI

4 Ottobre 2007 13:19

Concordo con la necessità di uno sguardo sempre critico, così come ci ricorda anche l'Agenzia Misna che riporto sotto, ma non ci si potrà chiedere di centellinare l'indignazione di fronte a eclatanti violazioni dei diritti umani. un cordiale saluto Pompeo Spagnoli www.sottilcieldipontremoli.blogspot.com Misna, MYANMAR 28/9/2007 22.39 RIVOLUZIONE, PRESSIONI ESTERNE O FRATTURE INTERNE? UN'ANALISI Per qualcuno a Yangon sta cominciando una rivoluzione di popolo, per altri, invece, nella ex-capitale del Myanmar è in corso solo uno scontro interno ai massimi vertici del regime, sostenuti da interessi internazionali differenti. La MISNA ha chiesto una lettura sugli ultimi avvenimenti che si registrano nel ‘paese delle Pagode’ a un profondo conoscitore del Myanmar, che al momento si trova in un paese confinante e che, recandosi regolarmente a Yangon per questioni di lavoro, ha chiesto di restare anonimo. “Dire se esista una spaccatura interna al governo è difficilissimo. I militari hanno sempre gestito i problemi interni con grande segretezza, anche in tempi tranquilli. Di solito ti accorgevi che qualcuno era caduto in disgrazia, quando improvvisamente vedevi che, nell’arco di poche ore, un pezzo grosso era stato trasferito a fare il sindaco in un paesino remoto. Si tratta di una realtà assolutamente illeggibile perché è un circolo chiuso e completamente blindato” spiega la fonte, aggiungendo che con il trasferimento della capitale a Naypyidaw (che letteralmente significa ‘dimora dei Re’, 500 chilometri a nord della vecchia Yangon), nell’estremo nord del paese verso il confine con il Bangladesh, “si è perso anche quel poco di contatto tra l’amministrazione e la gente della strada”. “La capitale è una cittadella isolata, dove i vertici vivono e si riuniscono da soli. Il trasferimento era stato fatto proprio in previsione di possibili turbolenze, oltre che per voci di un possibile attacco dal mare da parte di qualche potenza internazionale ostile ai militari” aggiunge la fonte. “Certamente all’interno dei vertici del Myanmar non c’è quell’unità che appare dalla facciata. Non ho elementi per parlare di una frattura specifica, ma l’intensificarsi delle pressioni di diversi attori internazionali sui generali potrebbe aver creato correnti diverse” aggiunge. Secondo l’intervistato il non intervento dei militari nei primi giorni delle proteste, non deve essere per forza interpretato come un segnale di frattura interna al regime. “Potrebbe essere anche un segno di continuità con la politica degli ultimi anni, quella che, dopo il massacro del 1998, ha visto i generali preferire allo scontri frontale altri metodi, più sotterranei, con i quali smontare il dissenso dall’interno attraverso le spie”. “Una via più ‘morbida’ – ha proseguito la fonte – che risponde a molti motivi: da un lato non si vuole dare a parte della comunità internazionale ulteriori motivi di contestazione del governo e dall’altra non si vuole irritare ulteriormente la gente, perché i massacri del 1998 hanno fatto comprendere anche alla Giunta il potere del popolo”. La fonte fornisce poi un particolare interessante, secondo cui, per sedare le proteste, il governo avrebbe richiamato a Yangon i militari normalmente dispiegati alla frontiera, temendo che i reparti di città non fossero abbastanza determinati. “I soldati arrivati negli ultimi giorni vengono direttamente dalla giungla dove si sono induriti con la guerriglia. Si tratta di gente reclutata giovanissima, indottrinata, pagata poco, ma col diritto di stuprare, rubare e saccheggiare. Campano con quello che possono e hanno un’arma in mano e con quell’arma si guadagnano, il pane e il companatico, rubando. Militari che al fronte hanno imparato che se non sparano come gli viene ordinato, sarà qualcun altro a sparare loro alle spalle” spiega la fonte. “In questi giorni – conclude l’intervistato -continua a tornarmi alla mente la frase che alcuni anni fa disse durante una cena un uomo di cultura: ‘Nel 1988 abbiamo vinto ma ci siamo fatti fregare. Quando il presidente si è dimesso abbiamo creduto che avrebbero ceduto il potere, fatto le elezioni e quindi ci siamo fermati. Poi invece si sono rimangiato tutto. La prossima volta, non so né quando né come inizierà, ma certamente nessuno più ci fermerà e sarà un bagno di sangue’. Una frase che raccolse l’assenso di tutti i birmani presenti”. “Non so se siamo arrivati al momento di cui parlava quell’uomo, ma sicuramente la gente negli ultimi mesi era esasperata e i recenti aumenti dei prezzi potrebbero aver soffiato sul fuoco che covava sotto la cenere” dice ancora prima di salutare. [MZ]

pompeo spagnoli

2 Ottobre 2007 10:34

E' appena uscito questo editoriale della redazione di Megachip. Quotidianamente leggo il sito www.megachip.info come quello di Arcoiris, fanno informazione e sono molto contenta che spesso entrambi mi ospitano. Leggete questi retrosena della Birmania. Se pure sono l'opinione di una redazione, io li condivido integralmente. ___________________________ I restroscena della Birmania - 2-10-07 I nostri lettori lo avranno notato. Mentre in tutto il mondo si organizzavano manifestazioni di protesta contro ciò che sta accadendo in Birmania, il Campidoglio offriva un giorno sì e l'altro pure le proprie sedi per ospitare i monaci, i titoli dei giornali diventavano sempre più grandi e si inoltravano sms inneggianti il red-shirt-day, noi di Megachip ci siamo limitati a segnalare la cronaca. Abbiamo voluto prendere tempo e guardare da lontano il fiume che da giorni ci ha travolto tutti sulla questione della Birmania. Un fiume fatto generalizzata indignazione scoppiato all'improvviso. Come se tutti scoprissero la Birmania solo adesso. Puzza lontano un chilometro. La prassi è sempre la stessa: situazioni critiche passate sotto silenzio si trasformano ad un certo punto dell'agenda setting in ‘evento' che non si può sottacere, che tutto il mondo deve condividere. Così è successo con il Darfur e così sta succedendo con la Birmania. E il nostro sospetto, in questo caso, è che i riflettori puntati sulla Birmania e sulle tonache rosse dei monaci buddisti siano stati accesi con un obiettivo strategico ben preciso: mettere in cattiva luce Russia e Cina, presentarle come le nazioni cattive, e di contro esaltare quelle buone, quelle occidentali, con a capo l'immancabile America, che mai e poi mai si sognerebbero di sparare sulla religione. La violazione dei diritti umani, che pure è sotto gli occhi di tutti, è l'unica punta dell'iceberg che i media fanno vedere. E nessuno, né i giornali, né la televisione, né gli individui cui questa messinscena si rivolge, ha scavato più in profondità. Le domande da fare sono le più semplici, eppure finora non le ha formulate ancora nessuno. Perché? Perché ora? Che è successo dall'88 ad oggi? Cosa interessa di più della Birmania, le risorse petrolifere, l'oppio o più genericamente il controllo di una nazione geograficamente strategica? Al posto di analisi, foto di ciotole per l'elemosina rovesciate e fotografi ammazzati. Perché il sentimentalismo, combinato col populismo, è più facile da suscitare, e più comodo da seguire. La sincera commozione spinge una buona parte di società civile, la più sensibile, ad abbracciare nobili cause di cui non sapeva niente prima e che dimentica facilmente dopo. Le candele alle finestre per la strage di Beslan, i braccialetti contro la povertà, le magliette rosse per la Birmania sono azioni simboliche di grande valore, ma attenzione ad usarle come alibi. Ogni azione di protesta è buona e giusta se segue una presa d'atto, una chiara consapevolezza di ciò per cui si sta protestando. In caso contrario, il rischio è di diventare facili prede di indignazioni terze, di cui, a saperlo, non condivideremmo probabilmente le ragioni.

Doriana Goracci

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