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11 Giugno 2009 14:41

Il Papa dell'Occidente

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di Associazione Sacerdoti Lavoratori Sposati

La Chiesa cattolica è una realtà bimillenaria. Ma l'attuale ruolo politico del papato sulla scena del mondo è una sua conquista recente, di questi ultimi decenni. Per tre secoli, dopo la pace di Westfalia, il papato visse ai margini degli Stati. La sua neutralità tra le potenze coincideva con l'irrilevanza. La denuncia della prima guerra mondiale come "inutile strage" condannò Benedetto XV all'isolamento. Alle conferenze di pace che posero termine alle due guerre globali del Novecento, la Santa Sede non fu neppure invitata.
La risalita cominciò a metà del secolo scorso, col pontificato di Pio XII. E proseguì con i suoi successori, Giovanni XXIII e Paolo VI. Quest'ultimo predicò dalla tribuna delle Nazioni Unite a nome di una Chiesa "esperta in umanità". Nudo di potere temporale, il papato si rivestì di autorità morale. Ma metà del mondo gli restava irriducibilmente ostile. Stalin irrideva una Chiesa priva di divisioni armate. Lo strapotere sovietico costrinse la Chiesa al silenzio, sia dentro la cortina di ferro, sia fuori. Non una parola sul dominio comunista uscì dal Concilio Vaticano II, che pure discusse di tutto. La celebrata Östpolitik vaticana di quegli anni si attenne alla più stretta dottrina realista, a quel minimo necessario per assicurare alla Chiesa perseguitata la chance non tanto di vivere, ma semplicemente di non morire.
Poi venne un papa dalla Polonia e tutto cambiò. La rivoluzione spirituale da lui animata fu il fattore aggiunto che accelerò il crollo del sistema sovietico. Durante il suo pontificato, la Chiesa dispiegò l'intera gamma dei suoi registri. Alternò il realismo geopolitico a un idealismo di sapore wilsoniano. Agli Stati, il papato antepose i popoli. All'inviolabilità dei confini sostituì "il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare chi vuole uccidere". Invocò l'intervento di eserciti internazionali in difesa dei popoli della Bosnia e del Kosovo. In entrambi i casi, si trattava di popolazioni musulmane, reliquie di quell'impero ottomano che tre secoli prima era giunto ad assediare Vienna; e il papa si schierava dalla loro parte.
Giovanni Paolo II era tutt'altro che un pacifista. Chiese interventi militari a Timor Est, a Haiti, nell'Africa dei Grandi Laghi: in quest'ultimo caso senza essere esaudito, col conseguente incontrollato genocidio di intere popolazioni. L'espansione della libertà e della democrazia era uno dei suoi principi guida.
Ma in altri momenti e su altri teatri Giovanni Paolo II optò per il rifiuto delle armi, all'insegna del realismo. Si oppose alla guerra del 1990-1991 contro l'Iraq, nonostante fosse approvata dall'ONU e fosse finalizzata a restituire la legittima sovranità a uno Stato invaso, il Kuwait. Tra gli "interessi" che motivarono questa opposizione del papa alla guerra, il primo fu la difesa della minoranza cristiana in Iraq. Un altro fu il rifiuto di un nuovo ordine mondiale a illimitata egemonia americana. Un altro ancora fu il proposito di instaurare tra la Chiesa e i paesi musulmani un rapporto non di scontro ma di "dialogo", analogo a quello intercorso col blocco sovietico negli anni della Östpolitik, anche a costo di mantenere il silenzio sulle macroscopiche violazioni dei diritti umani perpetrate in quei paesi.
Dopo l'11 settembre 2001, papa Karol Wojtyla di fatto approvò le operazioni belliche in Afghanistan. Si oppose invece risolutamente alla seconda guerra contro l'Iraq. La contrastò con tutte le sue forze, ma senza mai condannarla come immorale. La logica di questa opposizione del papa alla guerra era, ancora una volta, realista. Tant'è vero che nel 2003, soprattutto dopo l'eccidio terrorista di Nassiriya del 13 novembre, la linea ufficiale della Santa Sede divenne – ed è rimasta tuttora – di aperto sostegno alla permanenza di truppe occidentali in quel paese, permanenza promossa a "missione di pace", anche a protezione delle minoranze cristiane.
Non sorprese, quindi, che dopo la morte di papa Wojtyla, nel 2005, gli ultimi tre presidenti degli Stati Uniti si inginocchiassero di fronte al suo corpo e ai suoi funerali accorresse la quasi totalità dei governanti del globo. In un mondo divenuto più anarchico, dopo la dissoluzione dei blocchi, al capo della Chiesa cattolica si riconosceva un'autorità senza precedenti, morale prima che politica.
Uscito di scena un gigante della statura di Giovanni Paolo II, l'interrogativo naturale era se il suo successore sarebbe stato in grado, e come, di mantenere il papato al centro della scena mondiale. L'interrogativo era tanto più naturale in quanto il nuovo papa, il tedesco Joseph Ratzinger, era uomo d'altra tempra, teologo raffinato, difficile da immaginare come epico condottiero. E in effetti, sin da subito, Benedetto XVI rifiutò di imitare il suo predecessore. Ma nemmeno segnò rispetto a lui una rottura. Proseguì nel suo solco, ma con un passo proprio e originale. Anche sul teatro della politica internazionale.
Se Giovanni Paolo II era stato il papa delle folgoranti intuizioni, Benedetto XVI è il papa del ragionare e dell'agire metodico. Il primo era anzitutto immagine, il secondo è principalmente "logos". Di Giovanni Paolo II fecero colpo, all'esordio, queste parole della sua prima omelia: "Non abbiate paura, aprite le porte a Cristo". In esse balenava già un lampo della pacifica rivoluzione che egli avrebbe suscitato nell'Est dell'Europa, e non solo. Di Benedetto XVI, invece, il primo atto che ha fatto colpo su scala mondiale è stata la poderosa lezione tenuta all'università di Ratisbona il 12 settembre 2006. Ha fatto così colpo da scuotere letteralmente il mondo, a ragione e a torto. In quella lezione erano argomentati il giudizio e il progetto del nuovo papa sulla Chiesa e sull'Occidente, incluso il rapporto con l'islam.
Stando ai canoni del realismo geopolitico, Benedetto XVI non avrebbe mai dovuto pronunciare quella lezione per intero. Avrebbe dovuto prima farla rivedere e purgare da diplomatici esperti, cosa che egli s'era guardato dal fare. E nella curia vaticana parecchi gliel'hanno rimproverato.
Eppure, a distanza di due anni, i fatti parlano diversamente. A dispetto delle cassandre, tra la Chiesa cattolica e l'islam è sbocciato un dialogo che prima di Ratisbona non c'era mai stato e sembrava persino impensabile. Un dialogo non solo intellettuale – rappresentato ad esempio dalle iniziative seguite alla "lettera dei 138 saggi musulmani" – ma anche politico. Quest'ultimo ha avuto un'accelerazione impressionante dopo l'udienza del 6 novembre 2007 in Vaticano, la prima nella storia, tra il papa e il re dell'Arabia Saudita.
Anche dopo Ratisbona, un aspetto che contraddistingue il rapporto col mondo musulmano inaugurato da Benedetto XVI è la sua apparente imprudenza. Papa Ratzinger non teme di alternare ai gesti di apertura – si pensi alla preghiera silenziosa da lui compiuta nella Moschea Blu di Istanbul – atti che fanno a pugni con le cautele diplomatiche. Ha ricevuto tranquillamente in udienza Oriana Fallaci, una delle voci più critiche dell'islam, da lei ritenuto costitutivamente violento. Ha battezzato in San Pietro, la notte di Pasqua del 2008, Magdi Allam, convertito dall'islam e critico radicale della sua religione d'origine. Ma ciò che più stupisce è il cuore del ragionamento di Benedetto XVI. Il papa chiede all'islam che inizi anch'esso a compiere quella impegnativa rigenerazione di sé che la Chiesa cattolica ha compiuto nell'arco di due secoli, a partire dall'Illuminismo.
C'è un passaggio di un discorso di Benedetto XVI – letto alla curia romana il 22 dicembre 2006 – che svolge questa sua tesi nel modo più limpido:
"In un dialogo da intensificare con l'islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica. [...]
"Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura.
"D'altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l'autenticità della religione. Come nella comunità cristiana c'è stata una lunga ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente – così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande compito di trovare a questo riguardo le soluzioni adatte.
"Il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le soluzioni giuste. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s'impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà".
Come è facile ricavare da questo e da altri suoi discorsi, la "sinergia tra fede e ragione" è il cardine del pensiero di Joseph Ratzinger teologo e papa. All'origine della fede cristiana, per lui, non c'è solo Gerusalemme, c'è anche l'Atene dei filosofi. I due terzi della lezione di Ratisbona sono dedicati proprio a criticare le fasi in cui il cristianesimo si è pericolosamente distaccato dai suoi fondamenti razionali. E all'islam, il papa propone che faccia lo stesso: che intrecci la fede con la ragione, unica via capace di tenerlo al riparo dalla violenza. La difficoltà dell'impresa – riconosciuta ardua ma doverosa anche da pensatori musulmani di rilievo come Mohammed Arkoun – sta nel fatto che nella storia del pensiero islamico un rapporto fecondo tra fede e ragione si è praticamente interrotto con la morte del filosofo Averroè nel lontano 1198. Dopodiché, nell'islam, ha fino a oggi prevalso quella dissociazione tra fede e "ragionevolezza" da cui il papa ha messo in guardia tutti, musulmani e cristiani, nei passaggi più memorabili della sua lezione di Ratisbona.
Un teorico della politica potrebbe obiettare che le tesi papali esulano dal campo politico propriamente inteso. Ma per Benedetto XVI non è così. Egli è convinto che le società, gli Stati e la comunità internazionale debbano poggiarsi su fondamenti solidi. Come papa, il suo intento è anche di predicare una "grammatica" universale fondata sulla legge naturale, sui diritti inviolabili scolpiti nella coscienza di ogni uomo, quale che sia il credo di ciascuno.
Di questa "grammatica" – nel suo discorso alle Nazioni Unite del 18 aprile 2008 – Benedetto XVI ha sottolineato "il principio della responsabilità di proteggere", ossia "il dovere primario di ogni Stato di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani". Aggiungendo che "se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire". Ma papa Ratzinger non si è fermato a questa enunciazione. È andato al suo fondamento, senza il quale la responsabilità di proteggere cadrebbe in balia degli interessi in contrasto. E ha individuato tale fondamento ultimo nell'"idea della persona quale immagine del Creatore", col suo innato "desiderio di una assoluta ed essenziale libertà".
Benedetto XVI sa bene che questo ancoraggio alla trascendenza non è da tutti accettato. Ed è respinto proprio da una cultura che ha nell'Occidente la sua matrice. Ma ritiene doveroso annunciare incessantemente alle potenze mondiali che "quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l'ordine naturale, lo scopo e il bene comune comincia a svanire". Papa Ratzinger ritiene esaurita la formula "laica" posta da Grozio alla base della convivenza tra i popoli: "etsi Deus non daretur" come se Dio non ci fosse. Propone a tutti, anche a chi non accetta la trascendenza, la scommessa opposta: quella di agire "etsi Deus daretur", come se Dio ci fosse. Perché solo così la dignità della persona trova un fondamento incrollabile.
Ha sorpreso tutti l'accoglienza straordinariamente amichevole data da Benedetto XVI al presidente americano George W. Bush, in occasione della sua ultima visita in Vaticano. Essa ha segnato certamente uno strappo rispetto al tradizionale antiamericanismo di parte della gerarchia cattolica: quello che identifica gli Stati Uniti col capitalismo sfrenato, il consumismo, il darwinismo sociale. Ma la vera molla della simpatia di papa Ratzinger per gli Stati Uniti è che sono un paese nato e fondato "sulla verità evidente che il Creatore ha dotato ogni essere umano di diritti inalienabili", in testa ai quali la libertà. All'ambasciatore degli Stati Uniti Mary Ann Glendon, che gli presentava le credenziali, Benedetto XVI ha detto di ammirare "lo storico apprezzamento del popolo americano per il ruolo della religione nel forgiare il dibattito pubblico", ruolo che invece altrove, leggi in Europa, "è contestato in nome di una comprensione limitata della vita politica". Con le conseguenze che ne derivano sui punti che alla Chiesa stanno più a cuore, come "la tutela legale del dono divino della vita dal concepimento alla morte naturale", il matrimonio, la famiglia.
Su questi punti, la severità con cui Benedetto XVI sferza i governi d'Europa e, viceversa, l'ammirazione che fa trasparire per gli Stati Uniti è un altro elemento che lo contraddistingue. I destini dell'Occidente, materiali e spirituali, sono sicuramente al centro degli interessi geopolitici di questo papa. Ma non solo. Basti pensare alla cura con cui egli segue il capitolo Cina. La lettera scritta dal papa ai cattolici cinesi è anch'essa d'impronta molto ratzingeriana. Anche lì, di prudenze e reticenze diplomatiche ve ne sono poche.
Quanto all'impronta ratzingeriana, è facile ravvisarla anche nei documenti che sono in larga parte il prodotto della segreteria di Stato vaticana. Ogni inizio d'anno, dopo la festa dell'Epifania, il papa riceve l'intero corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede e legge un discorso in cui fa il punto sulla geopolitica della Chiesa in tutto il mondo. L'ultimo che ha letto, lo scorso 7 gennaio, era di routine. Ma nel finale Benedetto XVI ha introdotto un paragrafo inconfondibilmente suo:
"La diplomazia è, in un certo modo, l'arte della speranza. Essa vive della speranza e cerca di discernerne persino i segni più tenui. La celebrazione del Natale viene ogni anno a ricordarci che, quando Dio si è fatto piccolo bambino, la speranza è venuta ad abitare nel mondo, al cuore della famiglia umana".
Dalle arti della diplomazia a quel "piccolo bambino" che è Gesù il salto è vertiginoso. Eppure è tutta in questo nesso – secondo il papa – la missione originale della Chiesa, la sua teologia della storia, la sua "politica" nel mondo.

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