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5 Dicembre 2008 08:38

Torna in libreria "Quel delitto in casa Verdi" di Maurizio Chierici, pocket Bompiani, 170 pagine, 8 euro. Pubblichiamo la prefazione dell'autore alla ventesima edizione

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di Maurizio Chierici

Vent’anni fa attraverso gli archivi della mia città guardando senza devozione le carte che raccontavano del maestro Giuseppe Verdi. Non per mancanza di rispetto; volevo solo disporre in ordine diverso le pagine della storia risaputa. Disordine che suggerisce una specie di melodramma. Inatteso. Perché la benevola situazione di essere nato nella provincia di Verdi annulla gli anticorpi delle interpretazioni senza ossequio. Impossibile limitarsi a ricordarne il genio sfogliando documenti. Bisogna commemorarlo con la solennità dovuta. In piedi e compunti. E mai allungare gli occhi oltre il cliché della tradizione. Come ripete la tenerezza dei libri e degli articoli che ogni giorno accompagnano le opere dell’autore più rappresentato al mondo dopo Shakespeare, Verdi è solo un santo: occhi trasparenti che da ogni cornice osservano benevoli il popolo degli innamorati. Verdi è padrone dal cuore tenero, benefattore dal cuore largo, marito affettuoso e amante discreto sia pure incomparabile. Verdi è agricoltore d’avanguardia, patriota senza paura, politico di ragionata virtù . Ricco come pochi, eppure modesto nelle abitudini. Quasi la perfezione. Ma un signore tanto perbene e così educato avrebbe saputo strappare al suo piano, sinfonie destinate ad attraversare i secoli con una passione che travolge le platee? Il dubbio della doppia realtà, schizofrenia mascherata nel teatro del teatro, mi accompagnava sotto le polveri d’archivio durante lo scavo delle carte. E la conclusione sembrava semplice. Il santino distribuito dagli agiografi non avrebbe fatto tremare i cuori. Ma rallegrati sì: valzerini e piccole romanze per le voci bianche delle Tv nella pigrizia delle domeniche pomeriggio, quando piove. Vent’anni fa il diario ritrovato ha suscitato polemiche a volte divertenti. Un sindaco verdiano si è rivolto al presidente Pertini pretendendo mi si togliesse la cittadinanza italiana: “lesa maestà al monumento della patria”. Per cancellare la colpa dell’avermi prestato la bella immagine, il fotografo della prima copertina ha giurato che l’immagine era stata rubata. Solo quando gli umori si sono placati, un po’ vergognoso chiedeva perdono per aver avuto “un colpo di paura”, paura di non poter mai più fotografare qualcosa di Verdi. Mentre Massimo Mila scagliava l’anatema: “Verdi non può essere confuso con Maigret!”, la storia dimenticata si rivelava talmente intrigante da accendere un altro tipo di fantasie. Alberto Bevilacqua l’ha ascoltata quando la stavo scrivendo e, per caso, se ne è ricordato (dimenticando la voce narrante) mentre componeva le sue storie. Ma la memoria è tornata: all’improvviso. Tardi, purtroppo: libri già stampati. Ma con la grazia che gli è consueta Bevilacqua ha aggiunto al racconto una bellissima lettera. La conservo fra le cose care: “Ecco chi me ne aveva parlato... Sei un amico troppo importante perché un’ombra ci possa allontanare...”. Amicizia da salvare. Soprattutto salvare ad ogni costo un Verdi senza musica, padrone sfiorato da una morte misteriosa mentre infuriano rivolte contadine e congiurano fantasmi borbonici. Con un copione così, chissà quali sinfonie avrebbero incantato il Maestro. Maurizio Chierici

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