1 Settembre
I nostri occhi sono troppo abituati alla nostra vita per perdere tempo con la vita degli altri. Non importa cosa succede se immersi nel torpore delle vacanze e poi i fuochi di Pechino, trionfi Obama, badante dell’Alaska vice di McCain. Ma cosa è successo in Georgia ? Un’occhiata ai titoli; occhi sgranati davanti alla Tv. Macerie, ma non l’apocalisse che intenerisce la curiosità. Guerra di bassa intensità. Un po’ di morti, chi se ne ricorda. Il lettore che stamattina torna al lavoro si preoccupa se il Putin furioso con Stati Uniti ed Europa taglia il gas gelando gli inverni con bollette avvelenate. Famiglie già all’osso, recessione alla porta. Povera gente lontana, ma anche i nostri conti non ridono. Senza contare gli esercizi di memoria per ricordare dov’é la Georgia. Buona parte dei professori ( settentrionali- meridionali ) prossimi a risalire in cattedra non sapevano sotto quale bandiera tiravano avanti Ossezia e Abkhazia. A parte chi gioca con i cruciverba, ne ignoravano l’esistenza i ragazzi nati quando non c’era il muro di Berlino: non hanno ricordi della guerra fredda. E noi che frughiamo il labirinto delle diplomazie per capire se la crisi del Caucaso porti fortuna ai repubblicani, missili e moschetto, o se l’ottimismo Obama possa resistere al braccio di ferro con Mosca; a noi manca il tempo di informare sul destino della gente senza nome, solo comparse di qua e di là dalle frontiere invisibili. Ma l’allarme dell’Unicef riporta alla ragione, almeno dovrebbe anche se trascurato dai media. 40 mila bambini dell’Ossezia e dell’Abkazia vivono come bestie randagie dispersi in campi profughi, tende o scuole in rovina, accampati dove c’è posto, il più delle volte senza padri e madri finiti chissà dove. E arrivano le piogge e l’inverno.
La disattenzione diventa il paravento dietro al quale nascondiamo il virus che paralizza l’umanità: l’indifferenza. Globalizzazione umiliata dal tornaconto dei campanili. Ci scuotono solo gli avvenimenti del nostro giardino. Inutile evocare la strage dei bambini in Afghanistan, roba di venti giorni fa, vecchia notizia sbrigata da qualche titolo pudicamente indignato. Il giorno dopo non se ne parlava più. Dal 9 gennaio 2008 è la ventisettesima strage di ragazzi bruciati dalle forze di pace sparse nel mondo. Effetti collaterali involontari. Ma quando si lavora impossibile non sbagliare. Allora i bambini scappano senza aquiloni. A piedi verso Turchia o il paradiso del Pakistan dove li aspetta la democrazia delle braccia nere: 12 ore al giorno a cucire palloni, magliette, camice per un piatto di riso. Inferno, ma scappatoia: i ragazzi georgiani dispersi nei bollettini delle opposte propagande, dove possono andare ? E con quale nome nella rete degli eserciti schierati. Difficile inseguirli per sapere il destino che li aspetta. Un continente di minori sta viaggiando da ogni tropico in cerca della normalità. Chi può se ne va dalle afriche con le mosche sulle labbra. I padri li infilano in corriere appiccicose, schiacciati come polli giorni e giorni di deserto, finalmente il mare. Mare Nostrum da attraversare con le carrette dei negrieri. Non sempre arrivano ma quando arrivano non sono benvenuti. Troppi e maleducati, pregano in modo diverso e non si rassegnano a restare per sempre braccia nere del lavoro clandestino. Si specchiano nelle vetrine e vogliono essere ragazze e ragazzi come le ragazze e i ragazzi che incontrano per strada. I quali vengono educati dalle Tv a diffidare dello straniero. A odiarlo, a ributtarlo in mare. Lo predicano ministri in trionfo negli incontri bene illuminati di Cortina: Maroni viene soffocato dagli applausi delle signore-cachemire quando annuncia < tolleranza zero >. Dall’11 agosto a l’altro ieri 277 bambini sono sbarcati tra Lampedusa, Calabria e Sardegna confusi nella babele di profughi, lingue ed etnie diverse. Soli, senza padre e madre: hanno speso per loro gli ultimi soldi immaginando un futuro meno drammatico. Gesto estremo d’amore. Succedeva cinquant’anni fa in un’altra Europa quando l’ Italia rattoppata del dopoguerra si scandalizzava per il razzismo sudafricano e apriva le porte a chi scappava dalla paura. Tanto per far sapere come siamo cambiati: alla stazione di Budapest, intimorita dai carri russi che spegnevano la voglia di parlare, il signor Pressburger imbarca i figli, Giorgio e Nicola, fratelli gemelli. L’Italia 1956 accoglieva i profughi del comunismo con l’abbraccio umido di chi impasta il dolore degli esuli nel tornaconto della politica. Ma Giorgio e Nicola avevano imparato a diffidare quando erano piccoli nella Budapest degli stivali di Hitler. Nascosti nella stanza buia, dietro al matroneo della sinagoga dell’Ottavo Distretto, mangiano, dormono e parlano sottovoce senza un raggio di sole o il soffio che risale dal Danubbio. Provvisoriamente si salvano così. Quando i tank di Mosca cominciano a sparare, il padre li trascina alla stazione: < Arrivate in Italia, l’ Italia ha il cuore aperto >. I tempi cambiano e i cuori inaridiscono non solo a Milano dove Nicola diventa giornalista o a Roma nella quale Giorgio fa il regista e scrive libri che vincono il Viareggio.
Cinquant’anni dopo la storia rovescia i protagonisti. Sta partendo dalla Grecia un battello che vuole raggiungere un porticciolo della striscia di Gaza. Non è un commando armato di Al Qaeda. Vecchie signore e signori, ebrei arrivati da Berlino e dalla Francia, dalla Spagna e dagli Stati Uniti, rischiando qualcosa: sono decisi a rompere l’indifferenza nella quale i giochi delle potenze hanno sepolto il destino di migliaia e migliaia di ragazzi ristretti nel carcere a cielo aperto, gabbia di disperati. Acqua e luce ci sono quando ci sono. Piatti vuoti, ospedali senza medicine ma è l’insicurezza degli attacchi israeliani e l’idiozia di Hamas che permette ai gradassi di rispondere con piccoli gesti di guerra, a far svanire nel radicalismo una generazione di adolescenti senza speranza. L’ Intifada e la repressione dei missili
3 Settembre 2008 11:14
Grazie a Maurizio Chierici, testimonia che nel giornalismo sopravvivono isole di vera informaziome. Speriamo continui a scrivere per l'Unità.
Daniele