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8 Luglio 2008 11:15

Salari Amari

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di Filippo N.

di Marcello De Cecco Qualcuno, in avanti con gli anni, ricorda ancora il tempo del "salario variabile indipendente". Andava insieme, quel concetto, alla fabbrica fordista dove imprenditore e lavoratori erano legati allo stesso destino. Poi, in tutto il mondo, sono seguiti più di trent'anni di tentativi, riusciti, da parte degli imprenditori di riprendersi la propria libertà nei confronti dei lavoratori. Delocalizzazioni in paesi a basso salario e poche regole, outsourcing, piccole serie, lavoro interinale, tempo parziale, lavoro in affitto, flessibilizzazione, progresso tecnico che riduce la rigidità della produzione e via discorrendo. In queste condizioni nessuno può immaginare di proporre più il salario come variabile indipendente. Ma questo vale per tutto il mondo. Non serve a spiegare perché, in confronto al resto dei paesi dell'OCSE, i salari siano precipitati in Italia negli ultimi quindici anni. In termini nominali ma, quel che è assai più grave, rispetto ai prezzi, specie dopo l'introduzione dell'Euro. Abbiamo scritto dall'inizio che non era affatto necessario che ciò accadesse, per quel che riguarda il cambio di unità monetaria. Negli altri paesi della Unione monetaria europea, infatti, non è accaduto o è accaduto assai meno che in Italia. Il divorzio tra salari dei lavoratori indipendenti e guadagni dei lavoratori autonomi ha avuto luogo in Italia perché da noi coloro che fanno i propri prezzi sono milioni e milioni. Non siamo i soli. Anche in Argentina, ad esempio, è così. Mini imprenditori e lavoratori autonomi sono lì ancor più importanti che da noi. Ma nell'Unione monetaria europea ci siamo solo noi, e forse i greci, a possedere una struttura come questa. E le conseguenze si vedono. Coloro che fissano i propri prezzi, che sono i loro guadagni, li fissano in Euro. I lavoratori dipendenti li hanno ancora ancorati alla Lira, e seguono al massimo gli adeguamenti di un indice dei prezzi al consumo che non misura la vera realtà dei consumi dei lavoratori dipendenti. I redditi dei lavoratori dipendenti italiani (con l'eccezione solo di alcune categorie privilegiate, come i dirigenti pubblici e i dipendenti delle regioni e di alcune speciali amministrazioni) sono tutti ormai assai più bassi di quelli degli altri paesi dell'Euro, siano essi lavoratori a bassa qualifica, ricercatori, ingegneri, professori a ogni livello di scuola o università. Quando ci si renda conto di questo fatto, si capisce perché si sia creato un gioco a somma zero tra lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, professionisti di ogni genere, e la massa dei lavoratori dipendenti a tutti i livelli e in tutti i settori. Gioco che pesa sul modello italiano di distribuzione del reddito, quale si è venuto modellando negli ultimi tre decenni. Un gioco che vede una sua precisa rappresentazione politica nella polarizzazione che si è creata tra forze contrapposte (tenendo naturalmente nella dovuta considerazione il modello politico di molta parte del mezzogiorno, basato sullo storico intreccio tra delinquenza organizzata e aggregazioni clientelari, che invece di essere spezzato si è rafforzato ulteriormente) . Ma è un gioco che è fedelmente rappresentato anche nel nuovo modello di consumo che prevale in Italia dall'inizio del nuovo secolo. La tradizionale base del consumo di massa, affermatasi negli ultimi cinquant'anni, cede rapidamente il passo a un nuovo modello, basato su un tentativo dei produttori e negozianti, di sostituire la clientela impoverita dei lavoratori indipendenti con quella dei vincitori della battaglia redistributiva, che chiedono merci di alta qualità ed elevato prezzo. Naturalmente, è una trasformazione tutt'altro che indolore. Quelli che ce la fanno a collocarsi nell'alta gamma, anche aiutati dalla necessità di resistere alla invasione delle merci straniere a basso costo, anche sui mercati esteri, sono solo una parte dei produttori e negozianti pre-esistenti al cambiamento nella struttura dei consumi. Gli altri hanno chiuso o stanno per farlo, incluse le decine di migliaia di piccoli negozi che hanno guadagnato bene quando hanno potuto mettere prezzi maggiorati in euro su prodotti che avevano in casa al tempo del passaggio all'Euro. Ora devono ricomprare in Euro per rivendere pure in Euro, e il trucco non funziona più. Finisce anche questa fonte di occupazione, che comunque stava finendo da parecchio, perché esisteva ormai solo da noi, tra i paesi dell'Europa sviluppata. Ma, se la struttura produttiva, sia di merci che di servizi, fosse in Italia caratterizzata da attività ad alto valore aggiunto, probabilmente i nostri salari, malgrado le vicende legate alla gestione colpevole del passaggio all'Euro da parte del governo allora in carica, sarebbero meglio confrontabili con quelli del resto d'Europa. Accade invece che sia vero il contrario, e la perdita graduale di peso dell'industria rispetto ai servizi rende più grave il fenomeno, perché i nuovi lavori che si creano nel settore dei servizi sono in massima parte legati ad attività a basso valore aggiunto. Né bisogna dimenticare che nell'intera area meridionale del nostro paese questo è ancor più vero che nel centro nord. Da questo dipende anche il famoso divario di produttività che tutti gli analisti notano tra il nostro paese e i suoi partner europei. Se si ricorda che il valore del prodotto, in quasi tutti i servizi, si calcola sulla base del salario, e che nel Sud prevalgono le attività terziarie, si comprende bene che bassi salari e bassa produttività sono indissolubilmente legati. Il prodotto delle attività della massima parte del terziario si calcola sui salari in tali attività guadagnati dai lavoratori. Si divide per il numero dei lavoratori e viene fuori un prodotto pro-capite modesto, che, visto il prevalere graduale dei servizi, diviene sempre più modesto rispetto a quello dei nostri partner europei, che riescono a creare attività di servizi nelle quali si richiede manodopera qualificata e che hanno un elevato prodotto pro-capite. Sono settori, nell'ambito dei servizi, dai quali il nostro paese è quasi del tutto assente o assai meno presente di quanto dovrebbe. La miriade di imprese che compongono l'apparato produttivo italiano, inoltre, fa sì che esista una quantità di gente che in altri paesi fa parte del lavoro dipendente e da noi appartiene al novero degli "imprenditori". Questo pone problemi di evasione fiscale e contributiva sconosciuti dai nostri partner europei (a eccezione della Grecia). L'evasione fiscale diffusa è difficile da combattere. Negli altri paesi ce n'è assai meno perché ci sono assai meno piccole imprese e lavoratori autonomi. Questo rende assai gravoso il peso fiscale su quelli che non possono sfuggire, i lavoratori dipendenti, e in tempi come quelli attuali, di recessione internazionale, questo peso diviene impossibile da conciliare con livelli di consumo appena decenti. Il degrado economico del nostro paese da latente è così divenuto patente. Quel che lamentavamo in pochi da molti anni è ora davanti agli occhi anche dei meno versati in economia. Persino un dato che fa parte delle lamentazione nazionale, quello del famoso e deprecato "esodo dei cervelli", deve far paura per un motivo forse opposto: dal nostro paese, visti i livelli di reddito relativi, e le possibilità di occupazione, se ne vanno in troppo pochi. Sono numeri assai inferiori a quelli dei ricercatori e tecnici che emigrano da paesi come Francia e Gran Bretagna, simili a noi per popolazione e, almeno fino ad alcuni anni fa, per reddito pro-capite. La differenza si spiega con l'assai minore disponibilità di ricercatori e tecnici che c'è in Italia rispetto a quei paesi. Ce ne sono pochi e quindi vanno via in pochi. D'altronde, visti i livelli miserabili di remunerazione, perché dovrebbero i giovani dedicare lunghi anni a studi difficili che sfoceranno in redditi assai bassi? E infatti non lo fanno. I più bravi tra loro si dirigono verso le professioni tradizionali, medico, avvocato, commercialista. Questo è il risultato non ambiguo di numerose indagini nell'universo dei "primi della classe". www.lafabbrica.eu

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