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18 Aprile 2008 13:24

gli uomini invisibili

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di NADIRinforma

Ennesimo attacco aereo israeliano nella Striscia di Gaza: morti e feriti, tra cui donne e bambini, colpiti “ per sbaglio ”… Certo errare è umano, perseverare decisamente meno, come ben sanno i media embedded nostrani, che non a caso parlano indistintamente di rappresaglia ( pare infatti che i palestinesi – Hamas, Jihad Islamica, altri ? – abbiano osato uccidere tre militari israeliani, che verosimilmente non stavano distribuendo caramelle e cioccolata ai bambini, come suole fare spesso un esercito di occupazione ) e si affrettano a dire che è ripreso con grande intensità il lancio di razzi verso il sud di Israele. Mirabile astrazione, degna del miglior scrittore sudamericano: il sud di una terra che non ha confini certi, che forse neppure un viaggiatore del calibro di Bruce Chatwin avrebbe potuto descrivere con efficacia. O dove forse avrebbe anche potuto morire, contento di trovare un angolo di mondo dove finzione e realtà si avvolgono in interminabili spire, in un tango a ritmo lentissimo, estenuante, da togliere il respiro. Sessant’anni di menzogne e di inganni, un popolo – quello ebraico – tenuto in ostaggio da una dirigenza criminale e visionaria, schiacciato dal terrore e dalla manipolazione, vittima inconsapevole di una sottile pedagogia dell’odio, educato ad una tragica ed ineluttabile predestinazione. Un paese che si è dotato di tecnologie all’avanguardia, che esporta competenze nel campo della sicurezza, dell’informatica e delle telecomunicazioni in buona parte del mondo industrializzato, un paese a cui i territori che detiene comprensibilmente vanno stretti. Un paese ostile, che compie molte azioni di natura militare. Azioni che possono essere valutate in vari modi, certo; dalla vuota, acritica e irrispettosa mitizzazione che ne può fare una Debora Fait o il Pagliara di turno, fino a rappresentazioni ideologiche di segno opposto che, all’apparenza, non sembrano particolarmente utili per inquadrare il problema. Comunque sia, data per acquisita l’estrema gravità della situazione, l’analisi delle vittime rimane uno strumento di grande utilità per valutare l’entità di una forza nemica, le sue capacità operative ed il relativo modus operandi, la sua conoscenza del territorio et cetera; un po’ come l’attività investigativa, che non può prescindere dallo studio approfondito delle vittime di un serial killer. Naturalmente non è questa la sede idonea a stabilire i colpevoli di tanto scempio, né si tratta di assicurare alla giustizia un pericoloso criminale psicopatico; invero – questo sì possiamo tentare, umilmente, di farlo - un modesto tentativo di inquadrare alcuni soggetti dell’azione, per loro natura anonimi, anzi, direi di più, resi “invisibili” da altri soggetti attivi. Rimaniamo dunque su quella che viene definita dai media “la rappresaglia israeliana”. Velivoli militari lanciano i loro missili verso bersagli quasi immobili ( nel caso di veicoli che non si muovono certo con velocità da formula uno – targets praticamente fermi se rapportati alla rapidità di un jet supersonico ) o contro edifici privi di qualsivoglia protezione anti-balistica. Dell’azione, lo spettatore televisivo ( anche quello che segue alcuni canali arabi che garantiscono una maggiore copertura di simili eventi ) o il navigatore della rete vedono solo una parte delle conseguenze dirette ( solitamente feriti trasportati in ospedale su mezzi di fortuna, muri anneriti, tracce di sangue sul terreno ), ma c’è una cosa che non vede mai, un elemento che rimane nascosto e impenetrabile: i piloti dei caccia o degli elicotteri impiegati nell’attacco. Uomini invisibili, almeno per una parte consistente del mondo. Un atto disumano che viene, surrettiziamente, de-umanizzato. Una superiorità tecnologica che ammanta di luce sinistra i contorni del disastro. Ma questi uomini, però, esistono: non solo in carne ed ossa, ovviamente, ma anche in qualche parte remota della coscienza israeliana. L’opinione pubblica occidentale per contro, anche quella dichiaratamente filo-sionista, sembra invece del tutto indifferente al problema. Liquidarli come soldati che compiono il loro dovere sarebbe ingiusto, specie per la delicatezza del loro impiego operativo. Non dimentichiamoci che pilotare un moderno aereo da combattimento, un caccia di ultima generazione, è qualcosa che richiede una preparazione tecnica e fisica di primissimo piano; la selezione è dura e i piloti che la superano è gente che ha dei numeri. Indubbiamente. Salire su una macchina del genere è qualcosa che trasmette senz’altro potenti scariche di adrenalina, e non solo la prima volta. Reazione ormonale fisiologicamente normale, utilissima, specie se si pensa a quello che dovrebbe essere lo scenario tipico di un combattimento aereo: velivoli che si inseguono e incrociano a velocità inaudite, nel tentativo di abbattere o, quantomeno, di allontanare il nemico da un obbiettivo sensibile alla cui difesa è preposta la propria attività. Un pilota di caccia normale esegue periodiche esercitazioni, attività di routine e pattugliamenti aerei; siamo nella norma. Ma un top-gun israeliano è impiegato con grande frequenza in azioni reali, dove però il nemico è microscopico, un puntino scuro sulla terra giallastra di quelle latitudini, un target potenzialmente innocuo per il caccia da cui partono i missili. Il top-gun israeliano vola in assenza di una minima difesa antiaerea sul terreno, e anche quando sorvola i paesi confinanti – cosa che fa con una certa frequenza – è sicuro di tornare a casa senza graffi sulla fusoliera. Il top-gun israeliano ha a disposizione uno spazio aereo “amico” di enormi dimensioni, e se a volte capita che commetta un tragico errore sa di avere le spalle abbondantemente coperte, come ben sanno varie Associazioni di parenti vittime di qualche strage. Al tempo stesso, la diplomazia del suo governo, cancellandogli ogni nemico dell’aria, lo ha profondamente demotivato. È un pilota che produce molta meno adrenalina dei suoi colleghi, è un pilota che si sente a disagio. Mostra i segni di un precoce affaticamento, è un essere umano condannato dal suo governo ad una lenta agonia. A fine carriera potrà pilotare gli aerei della compagnia di bandiera, ma resta un uomo dal passato pesante e dal futuro incerto. Immaginiamoci che abbia dei bambini; assomiglieranno magari a qualcuna delle vittime di uno dei tanti raid che gli sono toccati in sorte. Il tragitto di poche centinaia di metri tra la sua casa e l’asilo può dilatarsi di colpo in un abisso di nuvole e orizzonte giallo-azzurro, se sopra la sua testa sfreccia veloce un caccia di ritorno dai Territori. Non dev’essere una vita facile, per niente. Un gesto di pochi secondi che lascia tracce indelebili per una vita intera. Un chirurgo convive con la morte dei suoi pazienti, dialoga con essa perché la vede, sente il battito del cuore del suo paziente, ne vede le forme, ne sente perfino l’odore. Chi lavora nei reparti di terapia intensiva sviluppa altrettanta capacità di gestione, coadiuvato in questo da personale solitamente qualificato. Ma il pilota di un caccia è da solo quando aziona il comando di un missile, è da solo quando compie la prima virata di rialzo, è da solo quando atterra rientrando alla base. Non vede il sangue delle sue vittime, non glielo fanno vedere. Ma l’acqua con cui si fa la doccia, al rientro, sgorga nella medesima terra di chi ha colpito durante la sua missione, la frutta che mangia – buonissima a quelle latitudini – ha sentito lo stesso sole che brucia la pelle dei bambini che non andranno a scuola l’indomani, la sabbia che entra nelle sue narici ha sporcato i vestiti sudati di tanti civili ridotti allo stremo delle forze dall’iniqua occupazione militare di cui egli è solamente una micidiale propaggine. È un uomo invisibile, perché così lo vuole chi comanda da quelle parti. Ma è anche un uomo a cui viene negato perfino il diritto di una lacrima, per di più da una classe dirigente che da oltre sessant’anni non fa altro che piangersi addosso. Eccellente militare, per molti versi una vittima eccellente. Relegato, con l’ignave complicità occidentale, all’infame ruolo di killer di bambini. Una triste figura, che offende la memoria dei veri eroi dell’aria, morti sotto molte bandiere, morti sotto un unico cielo. Pilota automatico, pilota invisibile. Abu Yasin Merighi www.islam-online.it 17/04/08

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