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20 Marzo 2008 02:03

Lavoratori di tutti i paesi connettetevi!

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di Lorenzo Mortara

Il mio intervento censurato all'assemblea della RETE 28 APRILE venerdì 14 Marzo 2008 a Milano. Signori e Signore Buongiorno, io e il Signor Cremaschi ci siamo già conosciuti a Vercelli in occasione di un’assemblea alla Camera del Lavoro all’epoca dello scippo del TFR. Già allora gli avevo accennato quali fossero, a mio giudizio, i problemi principali del movimento operaio. In quell’occasione gli avevo anche consegnato alcune pagine di bozze con analisi e proposte (vedi Appendice). Di queste proposte, fino ad oggi, non se ne è fatto niente. Non che allora mi aspettassi chissà che, ma siccome tentar non nuoce, oggi ci riprovo, aggiornandole con tutta la testardaggine che ho maturato negli ultimi due anni. Per me è difficile parlare perché ancora di più lo è ascoltare, quando sistematicamente si sentono cose che poi non vengono mai messe in pratica. Faccio fatica perché mentre ascolto mi domando sempre: ma chi parla vuole davvero coinvolgere i lavoratori? La risposta che a tutt’oggi mi do è no, mi spiace dirlo ma è così. L’ultima volta alle mie osservazioni Cremaschi non ha riposto nemmeno due righe. Ciò mi lascia molto perplesso. Io, infatti, lavoro in fabbrica come operaio metalmeccanico e devo dire che tra i colleghi non ho trovato pressoché nessuno interessato alla questione operaia. Nessuno che passi come me praticamente tutto il tempo libero dedicandolo all’approfondimento della nostra causa. Nessun operaio legge qualcosa di un certo spessore. Presumo che sia un po’ la situazione di tutte le fabbriche. Del resto, se così non fosse, oggi in questa assemblea, di operai che non siano delegati o rappresentanti ne sentiremmo qualcuno in più. Stando così le cose, devo giungere alla conclusione che un sindacalista che non trova il tempo per rispondere a me, è un sindacalista che vuole parlare al muro! Un dirigente che vuole cioè dialogare coi sordi! Il possibile malinteso trova conferma nel sito della Rete 28 Aprile, nel quale apparentemente tutti sono invitati a partecipare e a esprimersi, ma dove di fatto un gendarme o chi per lui censura tutto ciò che non è conforme a quella che Pasolini chiamava l’Opposizione Istituita. Forse mi sbaglio, e di articoli censura solo i miei, ma ciò basta e avanza alla mia rivoluzionaria coscienza di classe, per dire che il sito, evidentemente, è stato aperto per pubblicarvi direttamente il nulla. Naturalmente Rete 28 Aprile ha tutto il diritto di farlo, io non voglio lamentarmi, solo che poi non si pretenda di essere credibili esprimendo la grande necessità della partecipazione attiva dei lavoratori. In realtà questa partecipazione per ora non c’è, né di questo passo ci sarà mai. Allora il primo compito della Rete 28 Aprile, di coloro che si credono alternativi, e soprattutto di quel 10% di persone che in FIOM hanno votato No all’accordo sulla recente piattaforma, è guardarsi bene dentro e chiedersi che cosa si vuole. Se si vuole davvero la partecipazione dei lavoratori allora si può costruirla molto semplicemente. Come? – Innanzitutto aprendo gli incontri come questo alla partecipazione dei lavoratori. Preparando questa giornata Cremaschi ha detto ai compagni di FalceMartello: “Faremo una grande assemblea di delegati. È complicato perché sei di fronte a un’organizzazione non ricettiva, largamente istituzionalizzata”. Ecco è un po’ difficile organizzare le persone se ci si rivolge in primis alla casta burocratica nella speranza che si smuova dalla sua mummificazione. La burocrazia, l’abbiamo già visto in Russia, non abolirà mai sé stessa. Solo i lavoratori possono smuoverla. Ma se non vengono invitati e incitati a parlare sarà utopia pura pensarlo. Diversi pensieri per un’unica pratica – Per cambiare le cose bisogna anche guardarsi attorno e capire cosa c’è che non va, quali sono gli ostacoli che impediscono la partecipazione attiva dei lavoratori e provare a rimuoverli. Oggi cosa impedisce la partecipazione dei lavoratori? Lo impedisce il ruolo onnipresente e ingombrante dei burocrati che occupano tutti gli spazi possibili della scena sindacale. Perché i lavoratori partecipino, è necessario, lo dice la parola stessa, che gli venga lasciata almeno una “parte”. È una cosa talmente semplice che per i burocrati diventa impossibile, eppure chi vuole fare qualcosa per i lavoratori si deve semplicemente levare di scena, solo in questo modo potrà dargli quello spazio che gli ha tolto. Che non significa abolire la FIOM o la Rete 28 Aprile ma spostarne l’asse. Oggi la FIOM e la Rete 28 Aprile ruotano attorno all’idea preconcetta e tutta da dimostrare di essere diversi e alternativi. Tale pregiudizio li porta a credere di dover esser loro a costruire un’opposizione interna alla CGIL. Sempre a loro quindi tocca preservarla dalla deriva verso un pensiero unico. Chi dice queste cose dimentica che un’idea veramente diversa è una pratica diversa! È nella pratica che si vede la diversità non nelle vuote parole con cui non si fa che annunciarne l’eterno ritardo. E come è la pratica della Rete 28 Aprile? Né più né meno che quella della restante burocrazia sindacale. L’ultima volta che ne ho parlato, l’ho fatto di recente con due compagni di FalceMartello, secondo me i migliori marxisti che ci siano oggi in circolazione nel paese, me escluso ovviamente! Ho detto loro che FIOM e Rete 28 Aprile non sono affatto diversi dagli altri, tutt’al più sono la cresta più spostata a sinistra tra tutte quelle dei galletti a guardia della gabbia sindacale. Eravamo in quei giorni in fase di trattativa per l’ultimo rinnovo contrattuale. Mi son sentito rispondere che le mie critiche erano poco motivate e non supportate da sufficienti analisi. Non abbiamo parlato solo di questo, quindi va a sapere se si riferissero proprio all’argomento ora in questione, e tuttavia in merito, pochi giorni dopo, sul loro sito veniva pubblicato un articolo di dolore per la capitolazione della FIOM a Federmeccanica, per il rientro nell’ordine burocratico sindacale con la firma sull’ultimo misero contratto, dopo 6 anni di chissà quale percorso alternativo. Bisogna dire che quando la differenze sono così risicate nelle parole, ci si deve affidare a ben altro per riconoscerle, altrimenti si corre il rischio di sopravvalutarle. Non basta mettere tre virgole a sinistra perché il punto conclusivo non arrivi comunque a destra o al centro del conformismo consueto, alle spalle insomma degli operai pugnalati a tradimento. Esperienza personale e stampa operaia – Io lavoro in fabbrica da quasi 10 anni, ho assistito almeno a 3 votazioni di RSU e altrettante di piatteforme, e mai ho visto la FIOM fare qualcosa di diverso dagli altri sindacati. La piattaforma è sempre arrivata dal cielo e all’ultimo minuto senza nessuna vera e propria discussione. Le elezioni sono sempre state una farsa con i nomi dei candidati appesi su un foglio in bacheca senza nessuna presentazione di idee e programmi come in una qualunque elezione, anche la più incivile. A casa ogni due mesi, in mancanza di uno suo particolare, mi arriva un giornale della CGIL per semianalfabeti, tale e quale a quelli che trovate qua (non quelli distribuiti per l’occasione dalla Rete28Aprile, proprio quelli ufficiali che arrivano a casa agli iscritti – Nota post assemblea). Sopra non troverete un solo articolo di approfondimento ma solo un’informazione tipo lista della spesa: serve questo o quello purché servitù sempre resti! Infatti qualunque lavoratore voglia capire qualcosa di quello che oggi succede in Italia e nel mondo deve sempre cercare su altre riviste. Non è citato un solo autore di spessore. Ognuno parla e scrive come fosse al Processo di Biscardi perché tanto sa di non dover mai fare i conti con qualcuno che lo contraddica. E come potrebbe avere il contraddittorio quando a scrivere e a cantarsela da soli sono i burocrati di questa o quella sezione della confraternita sindacale. Se ci fosse davvero pluralismo, sopra i nostri giornaletti si noterebbe appunto il contrasto. Ma in dieci anni non ho mai visto scannarsi né semplicemente discuterci sopra nessuno. Ogni articolo è intercambiabile, può scriverlo chiunque tra i redattori. Non fa differenza. Se non fosse per la firma in fondo, nessuno potrebbe riconoscerne l’autore. Dunque anonimi autori scrivono articoli insignificanti per l’esaltazione d’un sindacato, evidentemente privo di senso, propaganda a parte. Il colmo lo abbiamo a Vercelli dove il nostro bimestrale si chiama La voce dei lavoratori, ma sopra nessun lavoratore può scriverci niente perché lo spazio deve essere riservato tutto agli strafalcioni sindacali e agli errori d’ortografia – da non crederci ma è proprio così – dei dirigenti burocrati. Quando è venuto Cremaschi a Vercelli, se si ricorda, io avevo proposto proprio al mio burocrate principale, Signor Esposito, di poterci scrivere sopra. E naturalmente mentre lo dicevo, lui, Esposito, faceva sì con la testa, perché davanti a una trentina di persone non poteva dir di no a una semplice richiesta di elementare democrazia per giunta costituzionale. Sono passati quasi due anni da quel giorno e potete immaginare che non ne è stato fatto niente, come era già ovvio per me allora. Ha forse fatto qualcosa di diverso quel 10% di “irriducibili” della FIOM racchiusi nella Rete 28 Aprile? Da poco sul sito hanno aperto un BLOG cioè una specie di discussione libera. In realtà è la solita via di mezzo. In pratica si lascia uno spazio aperto, nel retrobottega, di modo che la massa si sfoghi nel cortile, mentre la prima pagina e tutto il resto viene discusso e deciso da altri come al solito. Ed è qui che bisogna cambiare. Si deve far toccare con mano al lavoratore che è cambiato il modo di fare non quello di dire le solite banalità sui salari, la scala mobile e l’ascensore rotto della immobile gerarchia sindacale. Si può fare, oggi? Certo, basta introdurre internet nelle fabbriche a tutti i lavoratori. Prima di addentrarmi nel problema dell’informatizzazione delle fabbriche, vorrei dire due parole un po’ più originali sui salari e sulla scala mobile, così almeno i sindacalisti volenterosi la prossima volta che andranno nelle fabbriche o nelle piazze a perorarne la causa risparmieranno agli operai come me un ritornello che sanno già a memoria. Scala mobile, salario minimo intercategoriale sembra diventato il simbolo di chi crede di essere all’estrema sinistra! Al di là che in ultima analisi tutto ciò significa solo salario più alto possibile – e quando mai s’è visto un operaio che lo volesse possibilmente più basso? – ma anche così al giorno d’oggi non si può portare avanti una simile rivendicazione senza domandarsi nel dettaglio cosa comporti la sua crociata. Un salario minimo di 1000 euro più la scala mobile, nell’era della globalizzazione, significa rendere molto più costosa e quindi meno competitiva di quanto già non lo sia la merce-lavoro sparsa per l’Italia rispetto a quella sfruttata e dispersa negli altri paesi, in special modo quelli dell’est. Il salario minimo e la scala mobile accelerano la così mal detta delocalizzazione e la fuga dei capitali, rendendo ancora più precaria la vita dell’operaio italiano e lo scambio del suo lavoro contro il capitale. I sindacalisti più aggressivi e i rivoluzionari più mansueti hanno mai accennato a questo problema nei loro scritti di propaganda a favore del ritorno alla scala mobile? In quelli che ho letto io no! In quelli in cui si saranno addormentati altri, non so! E allora – borbotteranno – gli operai devono forse rinunciare a una vita più decente per la competitività delle multinazionali? Certo che no, ma gli operai hanno diritto di avere dirigenti che non sprechino carta, piazze e assemblee per sentirsi dire cose che sanno già, ma che le usino per elevare l’intero movimento alla coscienza internazionale di classe che oggi, poiché la richiesta di un salario minimo, in un contesto di competitività globale, rischia di ritorcersi contro all’operaio che la chieda in un solo paese, isolato, allora è necessario che la scala mobile sia rivendicata almeno a livello europeo. Solo così, livellando i salari europei verso l’alto, si mina la competitività a favore dell’operaio. Non è importante che una simile rivendicazione sia ottenuta subito. Importante è che se ne cominci a parlare, che il problema venga messo in cima alle priorità non nelle retrovie, di modo che lo sguardo dei lavoratori si diriga pian piano oltre le Alpi, per una più rapida collaborazione e organizzazione comune con i loro compagni d’Europa. Ecco che cosa intendo quando affermo che bisogna già impostare tutto il lavoro sindacale almeno a livello europeo. Niente a che vedere con l’internazionalismo platonico dei rivoluzionari. Loro confondono l’impostazione europea con diecimila postazioni internazionali che replichino ognuna l’impostazione nazionale, quindi locale, della loro organizzazione. L’internazionalismo consiste nel tentare di far muovere assieme, con rivendicazioni comuni, il proletariato mondiale, non i militanti sparsi per il globo. E quali sono queste rivendicazioni comuni? La prima, tanto per far un esempio, quella che fa da spartiacque tra un lavoratore ancora incosciente e uno che comincia a comprendere qual è oggi il suo vero problema, è la riduzione internazionale dell’orario da 40 a 30 ore settimanali. “Stop alla precarietà” non vuol dir altro che questo! Infatti anche la precarietà ha un lato positivo. Perché con tutta la precarietà e la disoccupazione che c’è noi vediamo prodotti in abbondanza e il mercato allargarsi. Questo è il sintomo più evidente che la società in generale non ha più bisogno di lavorare 40 ore alla settimana per produrre tutto ciò di cui ha bisogno. Ecco il lato positivo della precarietà. Toccherebbe ai sindacalisti farlo vedere ai lavoratori. È inutile che ci vengano a dire cose che sappiamo già. Non abbiano paura Cremaschi e la Rete 28 Aprile di essere audaci nei loro discorsi come nelle loro richieste. Gli operai capiranno benissimo queste cose. Spieghino che tutte le volte che si è trattato di ridurre l’orario c’è sempre stato qualcuno che si è opposto perché impossibile, utopico eccetera. Non solo, ottenute le 8 ore, spesso gli operai se le sono viste sfilare successivamente. Come spiega Marx, la Storia va avanti e poi indietro diverse volte prima di avanzare definitivamente oltre il ritorno della reazione dei padroni. Dico questo perché c’è già chi sfrutta l’attuale “fallimento delle 35” per contrastare ogni ulteriore lotta per la riduzione dell’orario. Ma il momentaneo fallimento delle 35 ore non è che il fallimento internazionale del movimento operaio, e l’ulteriore prova che per ridurre l’orario abbiamo bisogno di unirci almeno a livello europeo, tenendo sempre aperta una porta per i lavoratori americani e del resto del mondo. E che oggi si debba provare a far muovere di concerto i lavoratori almeno a livello europeo è testimoniato da più parti. Recentemente ne ha parlato in un bell’articolo Rossana Rossanda (vedi appendice, anche per i successivi richiami – Nota dell’Autore). Tempo fa lo ha fatto Oscar Marchisio ex funzionario FIOM-CGIL in un libro inchiesta Bologna Operaia. Anche la sintesi dell’ultimo congresso CGIL parla di un futuro sindacato internazionale. Ma più di quarant’anni fa l’aveva fatto credo per primo il tanto disprezzato e revisionista Palmiro Togliatti nel suo testamento: Il memoriale di Yalta. Ma perché il Sindacato Internazionale si realizzi, bisogna aggiungere che non saranno i burocrati a calarlo dall’alto sulla testa dei lavoratori, perché come insegna la Luxemburg, la Storia non è praticamente mai andata così. Il Sindacato Internazionale diventerà realtà quando saranno i lavoratori europei a imporlo come una cosa fatta alla poca fantasia in materia dei burocrati. Naturalmente ai dirigenti non tocca star lì ad aspettare con le mani in mano, a loro tocca accelerare gli eventi con discorsi come questo e dando tutto l’aiuto necessario agli operai più ricettivi e volenterosi. In questo senso non dicano semplicemente No all’abolizione del Contratto Nazionale, anzi prendano in controtempo gli arrivisti e dicano Sì, ma non per un ritorno alla contrattazione locale, individuale, bensì per una contrattazione internazionale! Lavoratori di tutti i paesi connettetevi! – Per prima cosa bisogna far partecipare i lavoratori. E per farli partecipare occorre metterli innanzitutto sullo stesso piano dei dirigenti. Qualcuno forse dimentica che democrazia non vuol semplicemente dire governo del popolo ma parità. Solo tra pari c’è democrazia. Qua oggi c’è ma solo a parole, nel senso che tutti oggi possiamo parlare, ma le parole stanno a zero fintanto che domani verranno azzerate da chi avrà in esclusiva la stampa per sovrapporci nero su bianco le sue. Il vero privilegio della casta sindacale, di cui parla il volantino di oggi, è proprio la stampa. Senza dare la stampa in mano ai lavoratori non caveremo ragno dal buco. Cremaschi e compagni sembrano spaventati dalla caccia al dissenso interno della CGIL. La CGIL vorrebbe togliere voce in capitolo a chiunque della FIOM le voti contro. Cremaschi e i suoi però dovrebbero riflettere sul fatto che per tappare la bocca a qualcuno bisogna essere sicuri che la voce non abbia altri canali per raggiungere l’uditorio. La CGIL vuole che siano solo i delegati confederali a parlare nelle fabbriche, solo cioè i capoccia più fedeli agli interessi non dei lavoratori ma dello loro poltrone, relegando le minoranze come la FIOM a tutto ciò che è strettamente di categoria. Cosa succederebbe però a quei dirigenti tronfi, così sicuri di poter parlare in tutta tranquillità a un pubblico anestetizzato dalla controinformazione di regime, quando scoprissero di essere stati anticipati, davanti a loro, da un’informazione nettamente più rapida e capillare che li ha preceduti? La verità è che la caccia al dissenso oggi non è più possibile perché la lepre ha raggiunto la velocità della luce, se solo usasse i canali giusti per non farsi prendere. Come farebbe la CGIL come la CISL eccetera a chiudere la bocca a una voce che parla in rete, dagli infiniti nodi da cui può partire per raggiungere all’istante tutti gli altri? Sarebbe un po’ difficile per non dire impossibile fermare un dialogo, fitto e ininterrotto, tra Cremaschi e gli iscritti alla FIOM che si basasse su un semplice clic. Alla CGIL, come a tutti gli altri organi di pressione sul popolo, per togliere il potere di cui abusano basta togliere l’esclusiva sull’informazione. Dopo l’ultima farsa del referendum sulle pensioni, Cremaschi ha dichiarato: “fin dove siamo riusciti ad arrivare con l’informazione, il referendum non è passato”. Io davvero nel 2000 non vorrei più sentire queste cose. Nell’era dell’informatica Cremaschi dovrebbe arrivare in ogni angolo del globo in un secondo. Collegando in rete tutti i lavoratori, nessuno potrà più negare ad alcuno il diritto di far conoscere agli altri la sua opinione. Con delle mailing-list o dei gruppi di discussione telematici fabbrica per fabbrica e dei BLOG di raccordo almeno questo problema è risolto. Una volta collegati in rete tutti i lavoratori il più è fatto. Cosa resta da fare? Resta semplicemente da mettersi di fianco ai lavoratori aiutandoli a fare in modo che pian piano prendano in mano le redini di tutto quanto concerne l’attività sindacale. Io personalmente mi tocco le cosiddette tutte le volte che sento qualcuno, i rivoluzionari di solito, che parlano di controllo operaio delle fabbriche e della produzione. Non vedo l’ora che questo succeda, perché il capitalismo mi ha veramente rotto le scatole. Mi domando però perché in attesa di dare domani agli operai ciò che oggi non gli appartiene, non possiamo consegnare loro ciò che già oggi possono avere tra le mani, cioè stampa e piatteforme? Gli pseudo-rivoluzionari son sempre pronti a consegnare le fabbriche ai lavoratori, purché questo avvenga domani, quanto a dargli oggi le chiavi del controllo culturale se ne guardano bene. Ed io sono terrorizzato, perché chi non è in grado di consegnare all’operaio le chiavi di tutto ciò che già oggi può avere nelle mani, userà la rivoluzione di domani per continuare a mettergli i piedi in testa parlandogli del controllo proletario delle fabbriche! Mi piacerebbe che già domani si vedesse il cambiamento. Basta solo volerlo. Abbiamo un sito che può concedere spazio a tutti. Potremmo pubblicare un resoconto fedele di quello che è stato dibattuto oggi, con gli interventi integrali di ognuno. Non ci vuole niente a farlo, basta avere uno spirito libero e profondamente democratico. Se invece una cosa verrà tagliata, l’altra nascosta, anche questa giornata andrà sprecata Costruire l’opposizione dal basso – Questa è incontestabilmente l’espressione che più rimbalza tra le file di tutti gli alternativi, gli oppositori, i rivoluzionari. Ma di nuovo vien da dire, come fare? Oggi siamo in mano a quelli che Keynes chiamava “pazzi al potere”, gente che è totalmente incapace di intendere e di volere, persone che davvero non si rendono conto di volere una cosa e di cercar di ottenerla con un’altra. Tutti coloro che vogliono la democrazia dal basso di norma intendono qualsiasi cosa a patto che a decidere alla fine siano sempre loro. Per Paolo Grassi collaboratore di Rete 28 Aprile, costruire l’opposizione dal basso significa (da FalceMartello N° 206 del 6 Dicembre 2007): “presentarsi ai lavoratori con proposte alternative e metodi di lotta credibili”. Io non metto davvero in dubbio la sua buonafede, però non posso solo per amore dell’impegno passare sopra l’eterno massacro della logica a cui i superficiali inchiodano la lingua. Dunque, per Paolo Grassi, bisogna costruire la democrazia dal basso con qualcuno, lui o altri dirigenti sindacali, che arrivano dall’alto della loro autorità, con una proposta, cioè un programma già fatto. Stupendo! Davvero! L’incoscienza di questa gente laureata e studiata è una cosa che mi lascerà sempre esterrefatto! Ora cosa dovrebbe dire e soprattutto fare un lavoratore a della gente che si presentasse così nelle fabbriche? Un lavoratore medio deficiente potrebbe anche star lì ad ascoltarli, ma un lavoratore appena intelligente non potrebbe che dargli il benservito! Il benservito anche qualora la loro proposta fosse la più bella mai vista in una fabbrica, perché solo un operaio deficiente può accettare una pappa che è stata fatta tutta da altri. Per fortuna, tra tutte le ipotesi, questa è l’unica non solo improbabile ma addirittura impossibile. Infatti quella indicata da Paolo Grassi non è una bella proposta, ma solo alternativa e credibile. Ora cos’è una proposta? Senza specificazione è un contenitore in attesa di un contenuto. E Paolo Grassi con quale contenuto ha riempito la sua proposta? Con “Alternativa & Credibile”: due aggettivi del contenitore! Morale: il contenitore è un guscio vuoto. Il contenitore in questione, però, essendo Paolo Grassi, è solo un uomo che una proposta non ce l’ha. Chiusa dentro il suo panegirico, possiamo trascurare una proposta che non c’è e tornare ad occuparci della democrazia dal basso, e “democrazia dal basso” significa elaborare assieme, passo dopo passo, proposte e piatteforme. Ma non si possono elaborare proposte e accordi assieme a persone che già elaborano da sole i nostri giornali. Chi stampa da solo gli articoli della sua personale lotta di classe, stamperà pure a spese dei lavoratori le piatteforme che vorrà scrivere per conto loro. Chi stampa da solo i nostri giornali, dovrebbe avere in risposta dai lavoratori l’immediata bocciatura di tutte le piatteforme e gli accordi che usciranno dalla sua tipografia. Io non voglio votare niente a cui non ho partecipato dal primo all’ultimo atto di stesura. Ma allora come si fa a far in modo che siano i lavoratori a farsi i programmi? Di nuovo è tanto semplice che sono anni che ne parliamo a vanvera. Cremaschi vuole davvero la partecipazione attiva dei lavoratori, le persone qui presenti la vogliono? Allora c’è una cosa semplicissima da fare. Domani o prima della fine del mese la FIOM raduni le sue RSU e le inviti a indire un’assemblea in ogni fabbrica. Dopodiché farà dire ad ognuna di loro le seguenti parole: “Operai, lavoratori, abbiamo firmato un altro contratto che fa schifo, amen, mettiamoci una pietra sopra. È andata come è andata ora pensiamo al prossimo. Abbiamo oltre due anni di tempo per preparare una piattaforma, però non deve essere il sindacato a farla, ma voi. È l’unico modo per farla fare a voi è rifiutarci di farla noi. Signori, il sindacato da questo momento smette di fare la piattaforma, e smette perché non ha idee, perché non vuole e non deve averle, perché è un tabula rasa. O la piattaforma la tirate fuori voi lavoratori, o andate pure a quel paese! Se non siete capaci di farla arrangiatevi, il sindacato deve difendere dei lavoratori sani non dei mutilati”. Ecco come si fa la democrazia dal basso. Con molta semplicità, cioè con tutta l’arte rivoluzionaria al completo! Dopodiché si strigliano le RSU di ogni fabbrica e si dice loro in faccia che se entro un anno non sono in grado di presentarsi ai vari direttivi con una piattaforma firmata da tutti i lavoratori o dalla maggioranza della FIOM possono tranquillamente dimettersi per manifesta incompetenza. Naturalmente il sindacato non incrocia del tutto le braccia. Anzi in questa fase di stesura userà tutta la sua ormai più che secolare esperienza per aiutare i lavoratori, per consigliarli, per fugare i dubbi, e perché no anche per criticare qualora gli sembri che ci sia da criticare. Ma alla fine da ogni fabbrica dovrà spuntare un’ipotesi di piattaforma. Con tutti i lavoratori collegati in rete, con gruppi di discussione fabbrica per fabbrica, sarà un giochetto da ragazzi scrivere, cancellare e riscrivere la piattaforma. Un gioco simile all’open-source, alla collaborazione di massa che sta prendendo piede e che, di conseguenza, non arriverà mai alla testa di qualcuno. Una volta scritta la piattaforma fabbrica per fabbrica, le RSU cominceranno a confrontarle. Sempre informando istantaneamente i lavoratori e decidendo di comune accordo, le RSU di Vercelli arriveranno a stilare un’unica piattaforma per la città. E così gli altri. Analogamente avremo una piattaforma per il Piemonte, e infine per l’Italia. Non solo, collegando in rete tutti i lavoratori, il sindacato comincerà anche a spiegare alle RSU per esempio della FIAT, cioè di tutte le multinazionali, che è ora che siano a stretto contatto informatico con tutte le altre RSU delle altre filiali sparse per il mondo. Messe assieme in un’unica mailing-list di discussione tutte le RSU di un intero gruppo industriale le fabbriche cominceranno a scioperare all’unisono e il Sindacato Internazionale si materializzerà sotto gli occhi increduli dei burocrati prima ancora che abbiano scritto una sola riga di tutte le scartoffie in cui hanno già immaginato di soffocarlo. Certo oggi c’è ancora il problema della lingua, problema che verrà via via risolto dalle nuove tecnologie che man mano forniranno traduzioni simultanee adeguate. Già oggi a livello embrionale sono presenti. Per ora comunque si può ovviare al problema scegliendo per tutti una lingua universale, l’inglese, e fornendo tutto l’apporto di traduzioni che il sindacato può offrire. Il sindacato può cercare collaboratori ovunque, tra gli studenti così uniranno l’utile ai dilettevole, tra gli immigrati, così gli operai sperimenteranno in concreto i vantaggi della libera circolazione degli uomini e si sentiranno più uniti, infine il sindacato può chiedere aiuto ai rivoluzionari presenti in ogni paese con le loro organizzazioni, così darà loro l’opportunità di trasformare l’internazionalismo, da una semplice solidarietà, ad un attacco concentrico al capitale. Questo in sintesi è tutto quello che c’è da fare. La mia proposta è in realtà molto più articolata e dettagliata. Qua la ho solo accennata. Chi volesse saperne di più mi contatti. Oggi non posso scendere nel dettaglio altrimenti parlerei solo io. Aggiungo solo che quando dico di informatizzare le fabbriche, di norma mi sento rispondere che i lavoratori non sono pronti. Il sindacalista che dice una roba del genere è evidente che ancora non abbia capito niente del suo ruolo. Il suo compito è appunto preparare i lavoratori non aspettare che siano pronti da soli. Se i lavoratori devono arrangiarsi da soli, lui a cosa serve? In realtà l’informatizzazione rapida dei lavoratori è una cosa fattibilissima. Poiché è tecnicamente possibile tutto quanto ho detto, non riuscire a farlo è solo questione di voglia. E quando è lazzarone, il sindacalista ha solo voglia di servire i padroni! Non sono i lavoratori che non sono in grado di collegarsi in rete, al massimo sono i sindacalisti che sono incapaci di darsi una mossa. Visto che sono i nostri rappresentanti, basterebbe tirare a sorte il 25% di loro da ridurre a paga precaria di 500 euro al mese. Forse il 75% di loro continuerebbe a dormire della grossa, ma non credo, di sicuro quel 25% di fortunati prescelti sarebbe più che sufficiente per informatizzare al più presto l’intera classe mondiale dei lavoratori. C’è poi chi dice che non tutti hanno internet. Intanto non è necessario che tutti ce l’abbiano, basta che i lavoratori si radunino a gruppi, oppure sfruttare mille altre possibilità. Ma si può fare anche così, con l’attuale 42% di informatizzati in Italia. Infatti è meglio il 42% di democrazia che il 100% di burocrazia che la intralcia. In realtà l’unico inconveniente dell’informatizzazione è che responsabilizza i lavoratori, e soprattutto, come avete visto, toglie potere alla burocrazia restituendo il sindacato ai legittimi proprietari. Di conseguenza niente fa più paura ai burocrati dello spettro di internet che si aggira per le fabbriche. In ogni caso che internet sia la soluzione lo sta già dimostrando la Storia. In Egitto (vedi appendice), recentemente, è stato la chiave di volta dell’ultimo successo dei lavoratori tessili. Non è ancora il collegamento stretto che voglio io, ma è sicuramente il primo passo. Del resto se i lavoratori non sono capaci di connettersi e di scriversi da soli le piatteforme, è inutile parlare di democrazia dal basso. Il vero guaio però, è che non sono solo i burocrati a far resistenza all’informatizzazione; anche la presunta avanguardia punta i piedi. Per i rivoluzionari, internet non è possibile tra i lavoratori perché, ci risiamo, non è sufficientemente argomentato. Allora provo ad aggiungere, in esclusiva per loro, un altro punto tra i tanti a favore dell’informatizzazione già espressi senza vera e propria replica costruttiva o distruttiva che fosse. I rivoluzionari vogliono rilanciare la lotta di classe. E, riformisti a parte, chi non lo vuole? Peccato che l’etimo di “classe” sia esercito. Infatti sia Marx che Engels che Lenin usano spesso la parola esercito per descrivere le due forze in campo dei padroni e dei lavoratori. Che io sappia però non si è mai visto nessun generale così sprovveduto da dare battaglia con un esercito equipaggiato in maniera irrisoria rispetto quello nemico. Anche gli indiani capirono presto che senza fucili, contro le giacche blu, arco e frecce avrebbero fatto ben poco, per quanto precisi fossero i tiri dei guerrieri. Oggi invece abbiamo delle tribù di rivoluzionari che vogliono affrontare un esercito, quello borghese, armato fino ai denti di tecnologie informatiche, con una truppa proletaria che viaggia ancora coi segnali di fumo e i piccioni viaggiatori. Così mentre tutti i capi e capetti si messaggiano per via elettronica da un capo all’altro del mondo, da filiali di aziende multinazionali ognuna col suo sito e suoi contatti, i lavoratori sono fermi al palo della tortura pseudorivoluzionaria. Così con un esercito informatizzato fino ai denti e l’altro ancora in mutande che comunica ancora a gesti, ai rivoluzionari non resta che ingaggiare una lotta di classe virtuale! Quando lavoratori e dirigenti sindacali useranno politicamente internet, e non solo per informarsi, recupereremo facilmente il terreno perduto. Alcune conclusioni – Così come l’unica proposta credibile è quella imposta dai lavoratori ai dirigenti, e non il contrario, alla stessa maniera il miglior modo per organizzare un milione di persone che hanno manifestato a Roma contro tutte le truffe, dal welfare al tfr alla precarietà del liberismo, è che si organizzino da sole, che prendano l’iniziativa, che prendano in mano le redini del loro destino scrivendosi da soli rivendicazioni e ipotesi di accordo, che mettano nero su bianco le loro richieste, che gestiscano i giornali sindacali che ancora finanziano perché la libertà di stampa dei sindacalisti esprima la censura totale della loro. Un milione di persone difenderanno con una forza mille volte superiore un programma nel quale ravviseranno davvero la loro impronta. Oggi tutto questo è possibile farlo. Il documento alternativo da presentare al prossimo congresso della CGIL possiamo scriverlo tutti assieme. Basta aprire uno spazio sul sito e cominciare a lavorarci sopra. Io personalmente credo che basti riscrivere parola per parola quello vecchio. Questo sto facendo da un anno. Potremmo pubblicare i primi punti e integrarli o cambiarli con l’apporto di altri e così via. Un documento che cresce ogni giorno con l’apporto attivo delle persone spazzerà via quello che approverà per l’ennesima volta la passività totale delle masse in nome dell’autorità senza pregio dei burocrati a capo del sindacato. Se qualcuno vuole darmi una mano può contattarmi, così cominciamo a riunire i volenterosi. Gradirei dunque che oltre al mio nome venisse pubblicato il mio indirizzo e-mail. Mortara Lorenzo (iscritto FIOM - CGIL) Via Prarolo 20 13100 Vercelli e-mail: CompagnoLorenzaccio@gmail.com APPENDICI Le vecchie proposte fatte a Cremaschi: Sradicare i giornali sindacali dalle mani sacrileghe e ignoranti della burocrazia sindacale, di modo che il dibattito, la curiosità e la voglia di partecipare dei lavoratori sia garantita in pieno come da Costituzione. Come si può fare? Con quella tecnologia e quell’innovazione di cui il sindacato ciancia senza ancora averne messo in pratica un solo aspetto – unico caso, ormai clinico, in tutta Italia. La soluzione è internet: istituire delle mailing-list in tutte le fabbriche, così tutti gli operai possono comunicare con tutti molto più che con le assemblee, e senza mediazioni di sorta, che altro non sono che i gendarmi attenti solo a che non si increspino le acque. Istituire dei BLOG, locali, provinciali, regionali più uno nazionale, su cui pubblicare tutto il materiale interessante che viene rastrellato dalle mailing-list di fabbrica, di modo che si abbia davvero una letteratura operaia pubblica a cui le RSU e i dirigenti sindacali siano chiamati a rispondere per dimostrare tutto il loro valore. Sui BLOG, inoltre, devono essere pubblicati tutti gli indirizzi e-mail delle RSU e dei dirigenti sindacali, di modo che se un lavoratore di Vercelli vuole comunicare con uno di Melfi lo può fare immediatamente tramite la RSU che provvederà a inserire nella mailing-list di Melfi la comunicazione o le critiche ai colleghi dell’operaio di Vercelli. Con poche mosse si collegano tutti gli operai volenterosi e si risparmia un’infinità di carta. Chi non ha ancora internet riceverà la versione cartacea di tutto ciò che verrà selezionato sui BLOG. 20 ottobre 2007 Diritti kaputt (da Il Manifesto) di Rossana Rossanda (grassetti miei) Nel «nuovo che avanza» e cui bisognerebbe abituarsi viene messa la precarietà del lavoro. I media portano abbondante acqua a questo mulino. Ah ah, soltanto gli inetti pretendono la sicurezza dell’impiego o, peggio, del posto: inetti, pigri e spesso fannulloni. Il rischio invece è il sale della vita come ben sa l’imprenditore. La Montezemolo francese, boss del Medef, ha avuto la seguente uscita: «La vita, la salute, l’amore sono a rischio, il lavoro non dovrebbe esserlo?». La signora Parisot ha molti titoli nel suo portafoglio, per cui rischiarne una parte le è agevole. Ma come accusare coloro che non sono proprietari di nulla, salvo talvolta i tre locali in cui abitano, di avere timore dell’avventura, cioè di restare disoccupati? Non si è mai sentito questo ragionamento da un «atipico», soltanto (e di rado) da chi ha un posto fisso. E quel posto fisso se lo tiene con cura, o una professionalità così forte - architetto, medico, George Clooney -, da poterla spendere sul mercato con tranquillità e ad alto compenso. Il precario normale - e sono da quattro e mezzo a cinque milioni e mezzo - conosce lunghi periodi di inattività, che può reggere soltanto con il paracadute dei genitori, generazione a posto fisso. Non può amare il rischio chi ha bisogno di un lavoro e non può trovarlo, o non decentemente compensato, neanche se ha un titolo di elevata qualità; sono ormai una folla i precari nella ricerca, nell'università, negli ospedali, privati e pubblici. E non amano affatto il rischio le banche e i proprietari di immobili cui ci si deve rivolgere per avere un mutuo o un alloggio, e non ti concedono né l'uno né l'altro se non mostri una solida busta paga o solide proprietà. Nessuno ha coraggio di negarlo. L’astuzia sta nel non parlarne. O nel cambiare le carte in tavola, come quando si dice: «Ma come, vuoi avere lo stesso posto tutta la vita? Che noia. Non ti piacerebbe cambiare, giocare sulla flessibilità?». Sicuro che piacerebbe, lo scriveva anche Fourier (se uno ha voglia di leggerlo troverà nella Nuova società industriale divertenti osservazioni sull'umana inclinazione a produrre di più e con più gusto sfarfallando serenamente da un'attività all'altra). Solo che per cambiare con allegria devi essere sicuro di trovare un altro posto. E questo avviene soltanto in periodi di pieno impiego. Fa impressione dirlo, ma un'elevata mobilità sociale, il passaggio da un lavoro all'altro, c'è stata negli Stati uniti e nell'Unione sovietica, dove sino agli anni '80 trovavi ai cancelli delle fabbriche o negli atrii delle aziende elenchi di richiesta di manodopera. E' precarietà quando si subisce, flessibilità quando si sceglie. Ma il lavoratore dipendente, e la maggior parte dei piccoli autonomi, può scegliere? I salariati devono in genere «prendere o lasciare». E infatti si sono battuti oltre cento anni per strappare qualche forma di contratto che non li lasciasse esposti a salari invivibili o a zero salari da una settimana all'altra. Possiamo fare un poco, pochissimo, di storia? E' solo dopo la Rivoluzione Francese che si sancisce - udite udite - il «diritto a lavorare», non il «diritto ad avere un lavoro», cioè il diritto di accesso a un reddito in cambio di prestazione d'opera. La prima legislazione sul lavoro dichiara che «ogni uomo è libero di lavorare dove desidera, e ogni datore di lavoro di assumere chi desidera, concludendo un contratto il cui contenuto è liberamente determinato dai due interessati» (1791). Si intende allora che nessuno appartiene più a nessuno, feudi e corporazioni sono aboliti, ed è un passo avanti. Ma si dà per ovvio che c'è una simmetria fra le parti, padrone e lavoratore che si presenta alla sua porta in cerca di impiego - tesi che è alla base del liberismo e viene spacciata anche oggi. Subito dopo la legge di cui sopra, sono dichiarati reato l'organizzarsi dei lavoratori e lo sciopero. Hanno da essere uno a uno, l'uno con il suo capitale e l'altro con le sue sole braccia o la sua mente, come se fossero uguali le loro possibilità di scelta. Questo sistema è durato fino ai primi del Novecento. Ancora nel 1906, giusto un secolo e un anno fa, il regolamento delle fabbriche Renault prescriveva: «Gli operai potranno lasciare la Casa con un'ora di preavviso al caporeparto. Reciprocamente la Casa si riserva il diritto di licenziare senza indennità gli operai facendoli avvertire dal caporeparto un'ora prima». Sono l'organizzazione solidale della manodopera salariata e lo sciopero, pericoloso per essa ma anche per il padrone, che permettono agli operai di stabilire un rapporto di forza che li protegge dal licenziamento - se uno di loro è mandato via, i suoi compagni di lavoro staccheranno, e una volta su due sarà riassunto. Per questo si parla di «lotte» del lavoro, lotte sono state. Ma «staccare» è un rischio e tale resta. In Italia la Costituzione legalizza lo sciopero ma soltanto la legge Giugni toglierà al padrone il diritto di licenziare «senza giusta causa», e sarà votata solo negli anni Sessanta del Novecento - è il famoso articolo 18. Che il padronato tenta di metter in causa, alzando il numero dei dipendenti delle aziende in cui può non venire applicato. Dalla fine degli anni Settanta comincerà a giocare sulla tenuta dei lavoratori e dei sindacati, la paura di perdere il posto di lavoro per scomparsa dell'azienda - considerata giusta causa se mai ce n'è una. Infatti le «ristrutturazioni» che accompagnano i cambi di proprietà, le fusioni, la maggior parte della «esternalizzazioni» comportano una riduzione del personale. I teorici del libero mercato sostengono che le imprese reggono gareggiando nel produrre a prezzi bassi, e così rendendo felice il consumatore. Per un certo tempo avevano predicato che con le nuove tecnologie il costo del lavoro era sempre meno importante nel bilancio. Da un paio di decenni hanno precisato che grazie alle tecnologie il lavoro dell'operaio è diventato assai più rapido, e quindi è d'obbligo ridurre il personale, il cui costo è tornato ad essere importante, anzi importantissimo, perché è la voce di bilancio più comprimibile (oltre al profitto). Il ragionamento si può rovesciare: la tecnologia permetterebbe di ridurre per ciascuno il tempo di lavoro a parità di salario, perché la produttività è diventata assai più grande. Se prima delle tecnologie di questi ultimi decenni la differenza di produttività era da uno a uno e mezzo o due, con essa è diventata da uno a uno a dieci o cento. Il salario sarebbe dovuto crescere in proporzione, o ridursi in proporzione il tempo di lavoro a salario uguale. L'esatto opposto di quel che avviene. La produttività sale e il monte salari scende. A questo scopo servono precipuamente gli «atipici» che riportano il diritto del lavoro a oltre un secolo fa. Alla faccia della modernizzazione. I diritti del lavoro sono stati sempre in qualche misura elusi o circuiti. Li eludono la miseria e la disoccupazione, che costringono al lavoro nero, i lavori domestici o «alla persona», che si tende a retribuire poco e a non pagarne i contributi sociali, li elude legalmente il precariato. Il padronato italico ha sempre cercato di sfuggire al contratto, prima di tutto con il lavoro nero, che specie nel mezzogiorno accompagna la piccola e media azienda: lo sanno gli ispettori dell'Inps, al cui arrivo con la guardia di finanza gran parte della manodopera corre a nascondersi. Specie con la manodopera immigrata, e non solo nel sud ma nell'operoso nord, dove intere villette nascondono opifici e il caporalato, che pareva un residuo del XIX secolo ed è tornato a prosperare. Funziona all'interno stesso della manodopera immigrata, specie asiatica, dove uno funge da padrone, o lo diventa, e sottopone gli altri a salari e orari senza regole. Lo schiavismo che Hannah Arendt denunciava negli Stati uniti (il massimo della libertà politica con il massimo della schiavitù sociale) è ripreso in occidente su larga scala. La legge non ha inventato il precariato, gli ha messo regole legittimandolo. Questo è il problema. Ha accettato che la forza di lavoro venisse considerata come la più obsoleta o banale delle macchine. Questa è una trasformazione di mentalità che rappresenta un colossale passo indietro nei rapporti sociali. Non ha alcuna giustificazione funzionale, è soltanto risparmio sulla forza di lavoro. Che attua anche lo stato usando dei precari negli ospedali e nelle università, mentre a fil di logica dei diritti umani, se fossero una cosa seria, il precario dovrebbe essere pagato almeno il doppio di chi ha un contratto a tempo indeterminato. L'utilizzo del capitale cognitivo si somma a quello sul tempo di lavoro, cercando di «mettere fuori calcolo» l'uno e l'altro, e tende a diventare la forma principale delle nuove assunzioni. Quanto all'articolo del Protocollo sul welfare, secondo il quale per essere assunti occorrono 36 mesi di precariato è una vera presa in giro. Non diversa da quella che nel contratto di primo impiego, il famoso Cpe, il governo di destra voleva imporre in Francia e la mobilitazione degli studenti ha mandato in tilt. Questo è il processo reale che passa come «fine della classe operaia» o «declino operaio». Quel che è declinata in occidente è la grande fabbrica, forma «sociologica» della produzione che viene decentrata e frantumata grazie alle tecnologie dell'automazione e poi dell'informatica. Ma fuori della fabbrica il salariato si è moltiplicato, industria culturale, dell'informazione e dello spettacolo inclusa. E ha stravinto l'idea che l'accumulazione del capitale, e per di più privato, è inevitabile, è condizione dell'economia, ne è «legge oggettiva». Stravince anche perché il sindacato arretra o si pone sulla semplice difensiva (della quale il sovversivismo, che pretende di opporsi alla timidezza del sindacato, è una variante). Ma è obbligatorio difendere una trincea indebolita o arrendersi? Non mi pare. Il sindacato svedese non si è opposto all'innovazione tecnologica, ma l'ha contrattata sul serio. Il mutamento che si è verificato con la globalizzazione non è dovuto alla tecnologia, che potrebbe liberare tutti, ma ai rapporti di forza fra le parti sociali su scala mondiale. Mentre il capitale viaggia, come si usa dire, in tempo reale, la forza di lavoro materiale o intellettuale, corpi e vite, resta necessariamente ferma e niente affatto necessariamente scollegata fra un paese e l'altro: per cui la stessa mansione è pagata fino a dieci, cento volte di meno da un paese, specie asiatico, rispetto all' Europa occidentale. E' questo che rende il prodotto cinese così a buon mercato rispetto a quello europeo, ma è indecoroso che financo i sindacati europei chiedano misure protezioniste invece che tentar di collegare i lavoratori. Già lo spazio europeo sarebbe una regione contrattuale forte. Come non è decente che in nome della competitività i governi permettano la delocalizzazione delle imprese verso i mercati del lavoro a basso costo. Una delle ipocrisie più flagranti della Costituzione europea è che essa garantiva la libertà delle imprese di andarsene, mentre il diritto della persona di accedere concretamente a un reddito decente era del tutto ignorato. Il padronato, più o meno spersonalizzato nelle grandi multinazionali in concorrenza, non è tenuto a proteggere i lavoratori, protegge azionisti e il suo top management. E' il sindacato che è tenuto a proteggere i lavoratori, vi si affiliano per questo. Ma stenta a pensarsi fuori dello stato nazionale in cui è nato ma i cui confini sono stati sfondati dal movimento mondiale dei capitali, al quale i governi, di destra o di centrosinistra che siano, si adeguano. A questo si aggiunge la pochezza dell'imprenditore italiano il cui motto sembra «prendi i soldi e scappa» - investimenti a lungo tempo, necessari per la ricerca e l'innovazione di prodotto, non ne fa. Né lo induce a farlo la filosofia della Ue, che invita il nostro governo a non occuparsi di economia e spendere sempre meno in quel salario indiretto che sono la previdenza e la sicurezza sociale, trittico che le lotte del lavoro si erano conquistate. Il congegno del precariato ne fa parte, per il governo di centrosinistra è una bella responsabilità. Rossana Rossanda Palmiro Togliatti a proposito della lotta sindacale nel Memoriale di Yalta (Sellerio Editore): «La lotta dei sindacati non può però più, nelle odierne condizioni dell’Occidente, essere condotta soltanto isolatamente, Paese per Paese. Deve svilupparsi anche su scala internazionale, con rivendicazioni comuni. E qui è una delle più gravi lacune del nostro movimento. La nostra organizzazione sindacale fa soltanto della generica propaganda». Oscar Marchisio, ex-sindacalista FIOM-CGIL, ora suo collaboratore, intervistato sul N° 83 del Maggio 2007 di Altreconomia per il suo libro inchiesta, Bologna operaia, dice: «Il limite centrale dell’azione sindacale risiede nella sua debole proiezione internazionale. Il sindacato è incapace di contrattare il salario lungo tutto l’asse della catena del valore. Quando un’azienda italiana decentra in Romania il sindacato dovrebbe aggredire e discutere di salario lungo tutto l’asse della delocalizzazione…». I tessili vincenti nell’Egitto affamato 27 mila operai nel delta del Nilo ottengono aumenti salariali del 40%. Una lotta durissima, osteggiata dal sindacato di regime, ma che ha dato una scossa anche alla sinistra egiziana. Media e internet hanno svolto un ruolo decisivo. di Michele Giorgio, da Il Manifesto di Martedì 2 Ottobre 2007 Gli operai di Mahalla, nel Delta del Nilo, hanno vinto. I 27 mila lavoratori della Misr Spinning and Weaving Company di Mahalla, una delle più grandi industrie tessili dell’Egitto, di proprietà pubblica, dopo una settimana di sciopero e occupazione degli impianti, hanno costretto alla resa il consiglio di amministrazione e ottenuto aumenti salariali e premi di produzione, promessi in passato ma mai versati. La protesta, portata avanti al grido di «non siamo schiavi del Fondo monetario internazionale», ha umiliato il sindacato statale che, di fatto, era schierato con il cda e ha ridato ossigeno al movimento operaio egiziano che, se riuscirà ad esprimere una leadership forte, potrebbe diventare una spina nel fianco del regime del presidente Hosni Mubarak. Sale infatti la protesta di tutti i lavoratori dipendenti per la politica economica del governo, improntata al liberismo sfrenato, che sta spingendo in alto i prezzi dei generi di prima necessità e aumentando le schiere di poveri, già tanto folte nel paese. Lo scorso dicembre gli operai di Malialla – con uno stipendio di poche decine di euro e costretti al doppio lavoro pur di sopravvivere – avevano scioperato accusando il cda di aver accumulato enormi profitti e di non averli utilizzati per far crescere i salari minimi o garantire premi di produzione a ciascun lavoratore. Gli operai avevano chiesto anche di poter godere degli aumenti promessi dal governo ai lavoratori del settore pubblico, ma si erano ritrovati contro proprio i sindacati statali – formati da militanti del partito al potere, Pnd – secondo i quali i miglioramenti salariali riguardavano solo i dipendenti dei ministeri. Dopo quella protesta il cda e il governo avevano inoltre garantito un premio di produzione pari ad una mensilità e, soprattutto, che il 10% dei profitti superiori a 60 milioni di lire egiziane sarebbe stato distribuito ai lavoratori: in pratica il salario di 150 giorni. Promesse mai mantenute. Nelle settimane, i rappresentanti dei lavoratori hanno attaccato duramente i sindacati ufficiali e sono arrivati a chiedere l’abolizione della Confederazione generale del Lavoro per lasciare spazio alla nascita di strutture simili ai nostri Cobas. «In Egitto deve cambiare tutto il sistema sindacale perché, così com’è, non fa altro che proteggere gli interessi dei padroni e dei dirigenti delle industrie, senza tenere conto dei bisogni reali dei lavoratori, I sindacalisti devono essere eletti da chi lavora, non dallo Stato», ha spiegato Moharned al Attar, uno dei leader della rivolta a Mahalla. Lui e altri sette operai sono stati arrestati durante lo sciopero e rilasciati dopo due giorni. «I poliziotti erano tutti dalla nostra parte, anche loro hanno stipendi da fame e non sanno come andare avanti», ha raccontato. Per i lavoratori più consapevoli dell’importanza della lotta cominciata a Mahalla, in gioco è il futuro dell’intero paese, sempre più schierato con gli Stati Uniti in politica estera e sempre più appiattito sulle posizioni del FMI in economia; eppure in Egitto c’è una «crescita» del 7%, tanto esaltata dal regime, ma vanificata dall’impennata dei prezzi al consumo e dal graduale disimpegno dello Stato dall’assistenza alle fasce più deboli (la politica di ispirazione socialista del presidente Nasser). Si teme peraltro che il governo possa annunciare la fine del controllo sul prezzo del pane e di altri generi di largo consumo, prospettiva che fa tremare una buona fetta di egiziani. La vittoria dei lavoratori di Mahalla ha dato una scossa alla sinistra egiziana e messo in moto energie nuove, anche nel mondo dell’informazione, strettamente controllato dal regime. Il quotidiano indipendente al Mas al Yom ha seguito con costanza la lotta dei tessili, costringendo anche altri giornali a fare altrettanto. Il contributo maggiore è però venuto dai siti internet, in particolare da 3arabawy del blogger marxista Hossam el Hamalawy, che ha messo in rete una marea di aggiornamenti sulla lotta operaia nel Delta del Nilo. Le ultime notizie riferite da el Hamalawy sono però inquietanti. Un tribunale ha condannato ad un anno di reclusione Kamal Abbas, direttore di una ong che assiste i lavoratori, e l’avvocato Mohammed Hilmi, per attività «illegali» e diffamazione di esponenti politici.

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