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18 Luglio 2007 01:10

Essere Comunisti alias Apparire Comunisti come sempre

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di Lorenzo Mortara

Siccome la redazione della rivista non risponde, pubblico qua questa critica, magari a qualcuno può interessare. Gentile Redazione, vi ringrazio per l’omaggio che mi avete fatto del primo numero della rivista. Purtroppo non posso fare altrettanto per il rischio di ulcera che ho corso non appena mi sono messo alla lettura dell’ennesima paccottiglia per dilettanti comunisti, cioè per borghesi di professione. Stando all’editoriale del Coordinatore Nazionale di Essere Comunisti PRC-SE, Claudio Grassi, e del Direttore della rivista, Bruno Steri, la paccottiglia, rispetto al Funesto, come andrebbe chiamato il precedente contenitore, dovrebbe «assicurare un maggior rigore nell’impostazione di fondo». Bene penso io, quale altro fondo può avere un comunista all’infuori del marxismo? Vediamo dunque come il Direttore coordini con rigore il marxismo nelle pagine che seguono. A pagina 8, nella colonna in cui si evidenziano i passi significativi di un’intervista all’unico Ministro di Risfondamento Consumista al Governo, Paolo Ferrero, ennesimo miliardario nell’interesse dei senza una lira, questo compagno dei padroni riesce tranquillamente a scrivere, ingigantito dall’infuocata passione rossa della redazione della rivista, che «la precarietà non è la strada per accrescere la competitività del Paese, ma è anzi una delle cause delle difficoltà delle nostre (corsivo mio – Nota Lorenzaccia) imprese: più possono sfruttare il lavoro, meno hanno bisogno di investire in innovazione». Un rigoroso marxismo avrebbe comportato la necessità di sottolineare con una riga rossa, fino a squarciare il foglio, questi strafalcioni da compagno di sbronze, altro che di strada per il Socialismo del XXI Secolo. Saranno sì e no sette anni che, dovunque vada, Camere del Lavoro, Piazze, Sedi di Partito eccetera, mi devo sgolare in difesa dell’analisi logica, perché persino un Ministro che prende 20 mila euro al mese, tra prebende e scippi di TFR altrui, non sa che in italiano “nostre” è (in questo caso) aggettivo possessivo, indica proprietà, ma forse che gli operai che dice di rappresentare posseggono le “nostre” imprese? Le nostre imprese sono le loro imprese, le imprese dei padroni. Invece di difendere gli operai dai padroni, un Ministro Consumista vuole difendere le fabbriche dei padroni italiani dai padroni stranieri, cosa tra l’altro che nell’epoca dell’Europa unita (evviva!), della Globalizzazione e della fine degli Stati-nazione, equivale a sborsare uno stipendio da fantascienza per uno che ha ancora le nozioni di economia di mercato di una scimmia del pleistocene, ammesso ci fossero scimmie nel pleistocene e soprattutto che ci fosse l’economia di mercato (anche lì, mannaggia la miseria della filosofia!). Per un Revisionismo Consumista, forse potrebbe andare anche bene, se questa fosse l’idea della rivista, ma per fortuna a questo punto non siamo ancora arrivati, visto che nella Tavola Rotonda che chiude lo sciagurato banchetto rosso improvvisato dalla redazione rosa, si dice a più riprese e giustamente che è necessario rimettere al centro di una nuova sinistra la contraddizione, ovvero, direbbe Marx, il carattere irriducibilmente antagonistico tra Capitale & Lavoro, cioè tra padroni e lavoratori. Ma non si può ripartire dal contrasto Capitale & Lavoro senza prendere atto al contempo che difendere la competitività, ovvero i padroni, significhi precisamente attaccare gli operai e viceversa. Infatti più competitività vuol dire maggior concorrenza tra merci, col non irrilevante problema che anche gli operai sono merci in competizione tra di loro e quindi sempre più svalutate e sfruttate; se non fosse così, non solo non esisterebbe un mercato del lavoro, ma vorrebbe proprio dire che Marx era un cretino, ed è più probabile che sia il Ministro ad essere malato di cretinismo parlamentare grazie alla redazione che non sa guarirlo all’istante con un sonoro ceffone che, nel caso di una rivista sedicente comunista, significa sputtanarlo su tutta la linea ogni volta che osa pronunciare simili bestemmie. Va anche detto che accettare il contrasto tra Capitale & Lavoro, vuol dire riconoscere la lotta di classe tra sfruttati e sfruttatori, cioè tra due paesi ben diversi e contrapposti all’interno di un unico Paese. Diventa difficile riconoscere questa lotta se ci si affida alla miope vista di un citrullo che fonde i due paesi per colarli nello stampo di un unico paese immaginario. «Quando consideriamo un dato paese dal punto di vista dell’economia politica, noi cominciamo con la sua popolazione…Sembra corretto… Ma, a un più attento esame, ciò si rivela falso. La popolazione è un’astrazione, se tralascio ad esempio le classi da cui essa è composta» (Karl Marx – Introduzione a Per la critica dell’economia politica – Editori Riuniti). Analogamente, quando tralasciano simili particolari, anche i ministri comunisti diventano un’astrazione. La competitività del paese a cui vorrebbero legare indissolubilmente le varie classi, smaschera infatti questo paese immaginario per quello che è: l’eterno piccolo mondo antico dei borghesi e degli astratti comunisti smaniosi di gravitarci attorno per ricaderci sopra come mele marce al primo vento di tramontana all’orizzonte che cangia dal rosso al nero. E certo difendendo la competitività, prima poi ci riusciranno, e in pompa magna mica in pompa minore come adesso. Nel frattempo, però, come intendono difenderla questa competitività? Con Innovazione-Ricerca-Sviluppo, ovvero col mantra sindacale, del quale l’Onorevole Ministro Ferrero ci risparmia perlomeno la seconda e la terza voce, comunque sottintese. Ma affinché innovino, secondo questo asino rosso, bisogna togliergli dalle mani lo sfruttamento del lavoro, perché maggiore è lo sfruttamento del lavoro e maggiore è il profitto ottenuto rispetto a quanto ne avrebbero ottenuto investendo in innovazione, anche se lui questo non lo sa, altrimenti capirebbe che in quella affermazione idiota è già insita la sua confutazione: se, infatti, invece di innovare sfruttano il lavoro, è evidente che i padroni ottengano con l’accorciamento della paga un profitto più sicuro di quanto possa garantirgli la cosiddetta innovazione, come se, tra le altre cose, cambiare il grado di scambio del capitale contro il lavoro non fosse anch’esso un’innovazione. Come se, insistendo di più su quella che il Ministro chiama innovazione, e che è solo un suo ideale di innovazione, il lavoratore fosse meno sfruttato, perché nella sua vuota dabbenaggine degna d’un ignobile accademico neo-marginalista, o di un noiosissimo Schumpeter fulminato dalla bella trovata della “distruzione creatrice”, sa calcolare lo sfruttamento apparente, ovvero il profitto assoluto, ma mai quello relativo, per cui mentre scalda il banco nell’aula di Montecitorio per 20 mila euro al mese, in qualunque asilo, qualche bimbo un po’ vispo, gratuitamente, riesce già a capire che se un padrone, per arrivare a 9 di profitto, schiaccia da 2 a 1 la paga di un operaio che produce un valore di 10, questi non è meno sfruttato del collega che può bearsi di un padrone che gli lascia la paga di 2 solo perché grazie all’innovazione gli fa produrre il valore di 25 sfruttando, per il suo stramaledetto profitto, il vantaggio competitivo. Ma perché allora, dirà lo zuccone strapagato, se possono guadagnare di più sfruttando relativamente meglio l’operaio, insistono nel cercare un facile guadagno strizzandolo fino all’osso in maniera assoluta? Ma per la semplice ragione che la ricerca e lo sviluppo capitalistico non hanno come scopo il prodotto o la meraviglia tecnica, ma l’innovazione di profitto, che si ottiene andando a toccare, cioè a cambiare, vale a dire innovare, tutto l’arco della produzione che va dall’operaio-lavoratore al processo fino al prodotto finito. Ma attenzione, poiché la macchina che per un’industria fa da processo, per l’altra fa da prodotto finito, e per entrambe l’operaio fa da merce, prodotto di scambio tra Capitale d’impresa & Lavoro, di conseguenza il particolare trinomio operaio-processo-prodotto diventa in generale prodotto-prodotto-prodotto, per cui l’innovazione, sia che sia di salario, di impianto o di articolo commerciale in senso stretto, è sempre una innovazione di prodotto. È per questo che Marx, riprendendo Per la critica dell’economia politica di qualche anno prima, inizia Das Kapital, la sua opera più matura, dicendo che la società capitalistica appare come una «immensa raccolta di merci», cioè di prodotti, non di processi e prodotti che è solo una scomposizione linguistica perfetta per tutti gli smidollati che risolvono appunto i problemi a parole. Inoltre, come direbbe il tanto disprezzato Togliatti da cui queste zecche rosse avrebbero solo da imparare, ciò che qui, per una questione metodologica, viene separato in operaio-processo-prodotto, nella realtà è unito indissolubilmente. Andare a toccare una parte vuol dire andare a modificare il tutto. Perciò non solo una qualunque innovazione è comunque un’innovazione di prodotto, e quindi un’innovazione di Ricerca & Sviluppo capitalistico, visto che operaio, processo e articolo di commercio sono in ogni caso merci, ma anche perché qualora i primi due componenti non lo fossero, ogni investimento d’innovazione su di loro, andrebbe comunque ad intaccare, cioè ad innovare il terzo dal quale non sono separabili. Se quindi l’imprenditore non cessa di sfruttare l’operaio è perché l’idiota di turno, ignorando la scomposizione mentale della produzione capitalistica, inventa la realtà demenziale nella quale il capitalista è costretto a investire grosso modo il 33% in più in processo e prodotto, cioè detto nella sua volgarità in Ricerca & Sviluppo, perché il libero arbitrio del parlamentare, che dà lezioni sulla competitività, vuol farla sfruttando soltanto il 66% del suo potenziale. Di conseguenza per lui, una qualunque iena di capitalista, che di norma si regge su tre gambe, è costretta a sorbirsi la solfa d’una bestia allo stato brado di conoscenza di economia politica che, oltre ad azzopparla, pretende pure di convincerla che marciando un po’ storpia sulle due sole rimaste, riuscirà lo stesso ad andare più forte. Facendo i conti ai capitalisti come vuole lui, scegliendo i dati che preferisce per risalire a un risultato d’un problema che è quindi impostato tutto nella sua fantasia di becero comunista, il nostro impareggiabile Ministro, ignora che a differenza sua gli imprenditori sanno cos’è l’innovazione e soprattutto sanno a cosa serva: al profitto! Purtroppo per il suo ottimismo, se tutti si gettassero nell’innovazione frutto di Ricerca & Sviluppo, quel vantaggio competitivo che lo genera sarebbe azzerato di colpo vanificando lo sforzo, come una serie di investimenti ricercati solo per il gusto di vederli buttati nel cesso. Non potendo pretendere questo suicidio di massa dagli imprenditori, bisogna accontentarsi delle stronzate ammassate nella bocca di un Ministro solo. Ecco spiegato perché i suoi padroni non investono come vorrebbe alla ricerca di un guadagno relativamente maggiore di quanto lo sfruttamento assoluto del lavoratore non garantisca loro. Perché il profitto, con l’investimento dell’intera massa dei capitalisti, diventa relativamente e assolutamente minore di quanto preventivato nei costi dell’innovazione. Sovrapponendo per un momento al linguaggio dell’economia politica quello della volgarità, debbo ancora dire che, all’interno di un paese che, come tutti i paesi così mal detti “sviluppati”, si basa al 70/80% su un’economia di servizi, se proprio è necessario innovare, bisogna promuovere l’innovazione di servizi e non di prodotti (sempre, ripeto, fermo restando che prodotti e servizi sono la stessa cosa e cioè prodotti, merci). Ma un servizio è la base d’un lavoro immateriale. Più che sulla tecnica, l’innovazione che riguarda questo tipo di lavoro, si basa sulla conoscenza, sulla cultura, quand’anche sia solo una sottospecie. E infatti, i più grandi magnati dell’imprenditoria, tenendo conto che i processi sono ormai pressoché uguali dappertutto, stanno sempre più cedendo a terzi il lavoro materiale per concentrare tutte le loro forze sull’immagine. Uno dei primi a comprenderlo è stato un italiano di nome Benetton, che a rigor di comunista fasullo dovrebbe essere un imprenditore fallimentare. E lo sarebbe se non avesse capito che nessun investimento può ripagare i danni costosissimi causati dalla mancanza d’un cervello innovativo, cioè funzionante. È così che più si inasprisce la concorrenza, e più chi ce l’ha sa che prodotti e servizi si migliorano innovando costantemente la qualità del fumo che oscura la mediocrità in vendita, non altro. Anche a non voler attaccare l’Onorevole Ministro col rigore di un marxismo sano e bello come questo, la redazione poteva almeno difendere i lettori dall’ennesimo viscido comunista che, alla stregua di un normale sindacalista, vuole insegnare il mestiere agl’imprenditori. Già fa schifo vedere un sindacalista comportarsi in questa maniera, vedere anche un comunista, pur se nominale, grida addirittura vendetta. E infatti questa è proprio la mia personale! A questo punto, visto che il mondo è capovolto, chiediamo agli imprenditori di fare i comunisti, chissà che almeno loro ci riescano. Oppure facciamo una petizione affinché i soldi di tutti gli iscritti ai sindacati, me masochista compreso, nonché il 90% delle paghe vergognose dei Consumisti al potere vengano accorpate in unico Capitale da dare in mano ai loro massimi dirigenti perché inizino un’attività, così finalmente vedremo come se la cavano da imprenditori, visto che la sanno tanto lunga. Io penso che se facessimo una cosa del genere potremmo assistere al fallimento commerciale più rapido della storia, al rovinoso e comico fallimento dei primi imbecilli che hanno tentato di essere competitivi al contrario, spendendo alla follia anziché risparmiando fino all’elogio dell’osso. Per precisione, aggiungo che se per assurdo o per miracolo l’innovazione riuscisse ad andare nel verso sperato dal Ministro, il problema della precarietà sarebbe risolto comunque sulla pelle della qualità del lavoro. Infatti, oltre a stabilire a priori che l’innovazione riduca anziché aumentare la precarietà, il Ministro Ferrero, dal marxismo di cioccolato, ignora completamente che l’innovazione dequalifica costantemente il lavoro: «Con l’estendersi dell’uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l’operaio. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un’operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima da imparare» (Marx-Engels, Manifesto del Partito Comunista – Einaudi). Certo, Marx ed Engels, si sono sbagliati dirà questo onesto compagno, peccato che le stesse cose le dica chi per lui ha visto giusto e cioè Adam Smith nel suo capolavoro La ricchezza delle nazioni, nel quale prevedendo in anticipo la dequalificazione del lavoro ai limiti della stupidità umana, nettamente inferiore a quella disumana parlamentare, l’ideologo del liberismo per sopperire alla demenza del progresso, ovvero dello sviluppo capitalistico, proponeva l’istruzione obbligatoria fino alla quinta elementare. Nulla a che vedere con la “formazione” di cui cianciano oggi sindacalisti e ministri in nome della qualità del lavoro. La formazione di Adam Smith non era un parziale risarcimento per la disoccupazione, ma un notevole rimedio, per l’epoca, alla deriva demenziale dell’occupazione. Perché per il primo economista moderno, più si accelera il processo innovativo e più la totale disinformazione diventa l’unica qualità richiesta da ogni tipo di lavoro, come conferma il lavoro di Ministro della solidarietà sociale, pomposo modo per definire l’ennesimo fancazzista, che non è possibile adempiere senza la più crassa ignoranza sul tema della competizione capitalistica, visto che da miserabile comunista qual è, l’On. Ferrero dovrà farsi spiegare, probabilmente dai suoi padroni, che per il padre di tutti i rossi, il nostro Marx, il miglioramento della competitività delle imprese coincide con l’accentramento nelle mani dei privati della ricchezza sociale prodotta nel paese dalla solidarietà di classe dei comunisti coi borghesi al governo! Spingere avanti la competitività del paese è precisamente tenere lontana la solidarietà sociale di classe tra i lavoratori, in nome della disgregante solidarietà asociale dei borghesi. Se si promuove la competitività delle imprese non si può poi rompere i coglioni con la crescente miseria e precarietà di chi lavora, sfruttato, per loro! Comunque la si giri, si investa o meno in innovazione, una cosa è certa: la qualità del lavoro è spacciata. Superato lo scoglio dell’Onorevole Ministro Ferrero senza che il rigore editoriale abbia niente da dire, a pag. 20 comincia la pappardella analoga di Maurizio Zipponi, irresponsabile del fallimentare dipartimento lavoro di Risfondamento Consumista. A differenza del Ministro che nulla sa di competitività, il Responsabile Consumista si presenta come un grande esperto di fabbriche. Lui conosce «dove lavorano operai e impiegati». Sarà… io, da quando lavoro in fabbrica, e in dieci anni ne ho girate parecchie, di Risfondati, sia all’interno che all’esterno, magari davanti ai cancelli a parlare coi colleghi, non ne ho visto manco uno. Lui comunque sa che le fabbriche «funzionano solo quando si investe in ricerca e innovazione» (…e sviluppo deve essergli disgraziatamente rimasto nella penna!), di conseguenza grazie a tanta sapienza, per ridurre drasticamente la precarietà devono trasformarsi – più o meno come ha fatto lui da comunista a opportunista! – e «abbandonare la fallimentare strada della competizione sul costo del lavoro», gettandosi poi a rotta di collo nell’impresa di «ricomporre il ciclo produttivo e la catena del valore», ammesso sappiano cosa significhi quest’espressione da teppista del linguaggio, per battere la concorrenza – degli operai tra di loro! – puntando sulla crescita dimensionale e sulla «qualità dei prodotti e dei servizi». Tutta questa proposta, naturalmente «ruota attorno al perno del valore del lavoro». «Il valore o prezzo della forza-lavoro prende l’apparenza esteriore del prezzo o valore del lavoro stesso, quantunque, parlando rigorosamente, valore e prezzo del lavoro siano espressioni prive di significato» (Karl Marx – Salario, prezzo e profitto – Editori Riuniti). Non avendo parlato in termini rigorosi, né avendo avuto qualcuno vicino che lo richiamasse all’ordine, nonostante alcuni se lo fossero dato, imperniate come sono su di un’espressione priva di significato come quella del «valore del lavoro», tutte le proposte di questo completo analfabeta dell’abc marxiano, nonché tutti i migliori giuslavoristi interpellati fino a lui medesimo, sono da considerarsi pure loro completamente insignificanti! Se il valore del lavoro non esiste, allora il costo del lavoro, visto da un comunista che si rispetti, dovrebbe essere semplicemente il costo del profitto pagato dai lavoratori per la bella faccia da culo dei Montezufolo! Solo che i Montezufolo hanno un motivo grande come il portafogli per chiamarlo costo del lavoro, i Pipponi invece, anche ne avessero due, non sarebbero credibili, se non da degli incredibili comunisti come loro. Il problema dei Pipponi, gatte in calore, è che vogliono miagolare al chiaro di luna coi Montezufolo. Se questi si lagnano del costo del lavoro, dicendo tra le righe che per la Confindustria i lavoratori sono un peso, i Pipponi, non riuscendo a leggerle, non sanno nemmeno tradurle al mittente nel linguaggio dei lavoratori, il quale dice chiaro e tondo che, per loro, il peso insopportabile è la Confindustria con tutta la sua congrega di usurai al completo. A chi li accusa di essere un peso gravoso insieme con tutti gli operai che dovrebbero difendere, i Pipponi, proprio come fanno i sindacati, si affrettano ad assicurare che sì, è vero, sono un peso, ma un po’ più leggero degli altri operai che sono spiumati vivi nel resto d’Europa o del terzo mondo. Invece di azzannare sul collo chi li morde, Pipponi e sindacalisti, pensano di difenderli dalle serpi velenose dei padroni, strisciandogli ai piedi. Dunque non difendono affatto gli operai, ma il verme che vedono in loro. E mentre per loro la competizione fatta sul costo stracciato del profitto è fallimentare, nelle casse degli imprenditori, proprio come registrano in una "Lettera a Prodi", pubblicata su Il Manifesto del 13 Febbraio 2007, il Senatore Fosco Giannini e tanti altri compagni de L’Ernesto che ora, chissà perché, han preso un’altra strada – speriamo sia quella del rinsavimento! – il «grande capitale italiano ha registrato negli ultimi quindici anni il più alto picco di profitti dell’intera storia della Repubblica». È per questo che tutti i padroni pregano giorno e notte perché il fallimento continui e sia ancora più rovinoso! E pregano anche, ovviamente, i catto-comunisti alla Zipponi. Non avendo capito niente del funzionamento dell’economia capitalistica, ecco che gli Zipponi hanno in programma convegni su convegni che li aiutino a continuare a non capirne un tubo. Secondo questi Zucconi il capitalismo andrebbe misurato sempre dal lato romantico del numero di salariati occupati o dalla pancia delle buste paga, e mai da quello più spiccio e venale delle tasche di chi lo spinge avanti. Il numero di fabbriche chiuse o in crisi, per loro sono il sintomo del declino imprenditoriale italiano perché non hanno mai avuto il dubbio, oserei dire darwiniano, che competitività vuol dire selezione. L’hanno scorso l’Italia del calcio ha vinto il mondiale all’interno di un torneo giocato da 32 squadre; al momento delle semifinali coi cruccacci, erano rimaste appena in quattro, ma nessuno s’è sognato di dire che il mondiale, nel momento stesso in cui entrava nel vivo, era piombato in crisi. L’unica differenza con la competitività sportiva è che, mentre nel calcio le forze in campo si scontrano a due a due, nel capitalismo lo scontro è più cruento e rovinoso perché mette simultaneamente tutti contro tutti. Se si vuole guadagnare è però inevitabile, e più si vuole guadagnare più bisogna lasciarsi dietro, sul campo di battaglia, i morti. L’ha capito persino quell’anima oramai santa di Massimo D’Antona che ha sintetizzato in maniera precisa, inconsapevolmente marxista, questa situazione: «il lavoro se ne va, ma la società è più ricca». S’è solo dimenticato di aggiungere, povera stella del cielo, che la società di cui parla è la società dei borghesi a cui questa ricchezza è andata pressoché in toto. Ad aiutare la sua memoria oramai perduta, come quella di tutti gli zombi viventi che si aggirano per i circoli di Risfondamento Consumista, ci ha pensato l’Istituto Marx-Engels di Napoli. Se solo i comunisti provassero a leggere i documenti che escono da quel centro studi, forse si risparmierebbero tanti inutili convegni. Siccome non si dà comunista che legga i testi dei rossi che l’accompagnano, i Risfondaroli potrebbero fare incetta di tutte le pubblicazioni di storia con cui le nostre meravigliose gazzette di regime provano a strapparsi le lettrici di alta moda, alias bassa arte da macelleria rivestita da atelier. Aprendo il Volume 24 della stessa Storia della UTET pubblicata due anni fa da La Repubblica e ora da Tv sorrisi e canzoni, al penultimo capitolo, L’Italia tra le potenze dell’economia globale, potrebbero imbattersi nella realtà del “nostro” capitalismo che casualmente, per gli storici, per gli studiosi è un po’ diversa da come se l’immagina l’analfabetismo convenuto a discuterne nelle piazze in cui s’è dato appuntamento. Se anche questa proposta non gli andasse bene, potrebbero farsi informare direttamente dalla nostra fonte originaria: «appena il modo di produzione capitalistico si regge su basi proprie, assumono una nuova forma la ulteriore socializzazione del lavoro e l’ulteriore trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione… e quindi assume una forma nuova anche l’ulteriore espropriazione dei proprietari privati. Ora quello che deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente che lavora per sé, ma il capitalista che sfrutta molti operai… Ogni capitalista ne ammazza molti altri…» (Tendenza storica dell’accumulazione capitalistica – Karl Marx, Il Capitale, Libro I). Dopo Darwin, l’evoluzione delle specie, Marx e duecento anni di capitalismo sempre uguale nella sua essenza, abbiamo ancora dei comunisti che credono si possa fare una competizione senza selezione, una gara che porti tutti i concorrenti in finale! Non gli passa neanche per l’anticamera del cervello che la crescita dimensionale delle aziende va di pari passo con la decrescita numerica, perché una s’ingrossa mangiando giocoforza l’altra. Per loro, le fabbriche stecchite, lasciano sul campo il cadavere del neoliberismo, il quale invece è vivo e vegeto e non è mai stato tanto bene, visto che altro non è che il piede schiacciato sull’acceleratore della concorrenza per spremere il massimo il profitto, e più cadaveri si lascia per strada senza incappare in brusche crisi, tipo ’29, più speditamente procede l’accumulazione di denaro. Poi, anche avessero ragione, queste zucche rosse dovrebbero sempre spiegarci, posto che l’unica strada per la competizione sia l’innovazione, per quale motivo gli imprenditori non dovrebbero aver voglia di farla. Il loro ragionamento si riduce sempre all’assurdo logico, quasi da manicomio, in base al quale sono gli imprenditori che non vogliono essere competitivi. Per forza! Se, come abbiamo visto, i rossi vogliono fare gli imprenditori, i padroni vorranno fare i comunisti, e perdere quindi la competitività per abolire finalmente il salario, il capitale e i loro rapporti reciproci. Sempre che questo, naturalmente, sia ancora lo scopo d’un marxista, quindi d’un qualunque comunista, altro che qualità dei prodotti e dei servizi, che alta qualità vuoi che possa avere un prodotto o un servizio seriale all’infuori della mediocrità e di una mediocrità sempre più schiacciata verso il basso man mano che il processo innovativo avanza (cfr. Americanismo e Fordismo di Gramsci)? Se solo gli Zipponi lo sapessero, saprebbero anche che, in attesa di abbattere il capitale, non c’è bisogno che spingano avanti la competitività perché «la borghesia (alias concorrenza, alias competitività – Seconda Nota Lorenzaccia) non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione» (Marx-Engels, Manifesto del Partito Comunista – Einaudi). È così che in nome del Socialismo del XXI secolo, per spingere avanti però il capitalismo, certi strani compagni, sono ridotti come tutti gli scemi del villaggio globale che scendono giù al fiume per spingere l’acqua al mare! «Ma – dirà la curva degli ultras dell’opportunismo – Compagno Lorenzaccio, il momento storico è quello che è, siamo a terra come una ruota sgonfia, non possiamo fare i duri & puri, dobbiamo fare dei compromessi». Ecco che vi ho scovato miei tristi, maledetti tartufi! Certo che dobbiamo fare dei compromessi, rispondo io, pratici però, non di principi. «Non fate commercio di principi», diceva Marx. E perché diceva di non fare commercio di principi? Perché nel momento in cui si fa, l’eventuale compromesso, se ancora i compagni d’affari non se ne sono accorti, non è più coi borghesi, come dovrebbe essere, ma coi proletari, per la semplice ragione che si è passati dall’altra parte della barricata. Ora finalmente sappiamo, ammesso ne avessimo bisogno, perché Zipponi, questo schifoso, ad AnnoZero, è riuscito a dire, in pratica, che la CGIL è onesta con gli iscritti che espelle, quando chiunque avesse riflettuto anche solo un istante sulle ultime mosse del sindacato, dalla truffa del TFR all’accordo sui call center, capirebbe che chi non ha consultato i lavoratori per cose così importanti non si farà nemmeno scrupoli per eliminare uomini scomodi come i compagni del CARC. Sia chiaro, io non sono iscritto ai CARC, non ci ho nemmeno mai pensato, ci sono in loro troppe cose che non condivido, a cominciare dalla solidarietà ai terroristi, ma non ho mai pensato che debbano essere cacciati dal sindacato per delle opinioni, perché so che gli unici che andrebbero cacciati a pedate sono quelli che non ne hanno manco una, poltrona a parte. C’è talmente tanta democrazia interna alla CGIL che, mentre scrivo queste facezie e le tre scimmie in testa ai nostri sindacati sono seduti al bar per discutere del nulla col governo, a Mirafiori, nel cuore del movimento operaio, i lavoratori – disgraziati! – stanno raccogliendo firme per pretendere che qualunque accordo o ipotesi di accordo, insomma di ennesima inculata, venga prima sottoposto al loro, è proprio il caso di dirlo, insindacabile giudizio, almeno per un sindacato che giudica, fa e disfa tutto da sé. Bisogna proprio essere degli sfacciati antidemocratici per pretendere simili follie. In effetti, questo andazzo in CGIL è proprio un esempio di democrazia interna: al sistema borghese! Ecco perché trova pieno appoggio nel compagno Zipponi che, proprio come desiderano i suoi adorati padroni, la vuole autonoma dal Partito e dal Governo, così almeno, stando fuori dal governo con tutti gli operai al seguito, può lasciare il via libera all’interno del Parlamento ai preti, alla mafia e al capitale, salvo poi piagnucolare come una prefica perché preti, mafia e capitale, spaparanzati nell’aula deserta di lavoratori e dei loro rappresentanti diretti, non vogliono fare – ma guarda un po’! – leggi e politiche a favore degli operai. Se non sono velleità, queste, di comunismo, mi dica Rossana Rossanda (alla quale avrei molto piacere faceste leggere questa lettera, sperando vivamente in una sua risposta), unica compagna tra gli scriventi che stimo profondamente, cosa sono. Certo, come sempre, lei ha ragione. Non si danno masse spontaneamente comuniste. La massa, la coscienza, la importa dall’esterno. Ma bisognerebbe anche chiedersi da chi l’esterno, a sua volta, la importi? E la risposta è semplice: da nessuno. O l’intellettuale o presunto tale la coscienza sa darsela da solo o resta un borghese come un altro. Se la coscienza di classe della massa è zero, vuol dire che quella degli intellettuali che si danno un sacco d’arie è sottozero. Le masse son sempre pronte per la coscienza di classe, esattamente come gli intellettualoidi son sempre pronti a scaricare sulla loro presunta arretratezza l’incapacità a darsela per primi, proprio come scrive Lenin in Che fare? E che il vero problema non sia chi non ha coscienza di classe, ma chi presume d’avercela è testimoniato pressoché dalla prima all’ultima pagina della vostra rivista, visto che se, come scrive Rinaldini non contraddetto minimamente come al solito, tutti sono per l’«autonomia delle organizzazioni sindacali», possiamo tranquillamente concludere che nessuno di questi è comunista. "Essere Comunisti", dunque, è solo un modo, l’ultimo trovato, per "Apparire Comunisti" come prima…

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