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16 Luglio 2007 08:56

Maurizio Chierici: Quella chiesa che non parla latino

1500 visualizzazioni - 2 commenti

di Maurizio Chierici

Chi ha compiuto sessant’anni anni ne è felice. Torna la messa in latino, magia che ha accompagnato antiche adolescenze nel cammino della fede. Abracadabra il cui mistero non veniva sciolto dalle grammatiche di una scuola dell’obbligo che non c’era. E ogni ragazzo invecchiava con le parole della liturgia inzuppate nel dialetto, specie di creolo al quale milioni di fedeli affidavano l’eternità. Vent’anni fa, Luigi Meneghello, scrittore di < Libera nos a Malo > e < Piccoli maestri >, giocava nella trama di un’intervista. In quale modo i contadini analfabeti del Veneto, a quel tempo devoto, prima delle fabbrichette, accompagnavano le preghiere del prete che nessuno capiva ? Adattandole, rispondeva Meneghello. Per esempio, i funerali. Senza < dies irae, dies illa – solvet saeculum in favilla- teste David con Sybilla- quantus tremor est futurus- quando judex est venturus > nessuno accettava di finire sotto terra con una benedizione qualsiasi. Nessuno sopportava la privazione dell’ ultimo canto avvolto nell’incenso. Onore conclusivo dovuto, almeno quello. Ma nessuno sospettava la catastrofe che le belle voci modulavano quasi in allegria : < giorno d’ira, quel giorno – distruggerà il mondo nel fuoco- come affermano Davide e Sibilla- quanto terrore- quando arriverà il giudice >. Se la traduzione li avesse informati, addio funerale cantato. I < moccoli >, vale a dire i chierichetti, si arrampicavano inconsapevoli nei gorgheggi di un latino che cambiava da una valle all’altra. Nell’alta val Posina, sorrideva Meneghello, diventava < dies irae, dies illa- salivat saeculum cun Sybilla > mentre la sua Thiene si sbrigava in due battute: < dies irae, con favilla- quanto tremor con Sibila >, rimpicciolendo il giudizio universale in una specie di lite marito e moglie. Ma la memoria degli analfabeti latini attraversava il tempo con ingegnose furbizie. Legava suoni misteriosi alle pratiche della vita: < tantum ergum- sacramento –canta al merlo- inda el frumento >. < Fiat voluntas tua- e van en tla stua >. Eppure un poeta che raccoglieva le parole dei poveri- David Maria Turoldo – non solo non si scandalizzava ma riteneva atto di fede il volgare dei senza cultura impegnati con furbizia contadina a non perdere la memoria delle preghiere dei preti, i quali, come tutti sapevano, parlavano una lingua a parte, lontana dalle voci della gente che lavorava con le mani. Chi non lavora con le mani ed ha superato gli anni sessanta, sta oggi vivendo la grande felicità del ritorno alla tradizione. Confraternite dei pochi contenti. Latino snack per le culture della nostalgia. Camillo Langone, teocon di provincia, sull’apposito Giornale chiede all’editore Franco Maria Ricci perché ama pregare in latino. Con l’eleganza dell’editore effimero ( libri da guardare, non importa leggerli ) Franco Maria conferma che < la messa in latino è bella come una canzone americana e c’é il grande vantaggio di non capire tutte le parole. Ma il latino è utile in altre occasioni: quando ti confessi… >. Una volta, in Germania, gli è capitato. Ricci chiede l’assoluzione per una debolezza della carne. < Non parlavo il tedesco: ho raccontato il peccato in latino e non conoscendo le parolacce mi è stato concesso di sorvolare sui particolari >. Il motu proprio di Benedetto XVI allarga la curiosità teocon a Carlo Rossella, fino a ieri direttore Tg5, oggi signore hollywoodiano del supercinema Berlusconi. Rossella si lascia andare, ecco la mia anima, cari lettori: < Anche quand’ero iscritto al Pci recitavo il pater noster in latino >. Ma la contentezza è un’altra: ricordo del cardinale Ruini che nel latino tanto amato benedice la redazione del Tg5 pochi giorni prima dell’adunata Family Day, seconda lingua dei credenti doc. Se il club dei latinisti raccoglie gruppi librescamente selezionati, fedeli incerti tra la nostalgia per la lingua che scuola e seminari hanno quasi dimenticato e la voglia di ritrovare le magie dell’adolescenza, bisogna dire che Benedetto XVI non deve avere pensato a loro quando ha deciso di ripristinare il passato. Il romanocentrismo dei vaticanisti punta il dito sugli eredi di Lefèbvre, eppure non è credibile che il Papa riaffondi nei secoli solo per rimarginare la disobbedienza di pochi preti e qualche vescovo. Possibile sia tornato dal viaggio nel continente latino, il più cattolico nel mondo, mantenendo l’ossessione per lo scisma valligiano dei lefebvriani ? Forse il disegno contempla il futuro dell’altra America. Proprio da questa America arriva l’ipotesi di una restaurazione organica affidata alle élites. Benedetto XVI ha incontrato vescovi e cardinali attorno ai quali si raccoglie la fede di 127 milioni di cattolici, solo in Brasile. Ma proprio in Brasile ogni anno un milione di cattolici si rifugia nelle sette protestanti: stanno occupando lo spazio sociale trascurato dalla teologia della liberazione che Roma ha accantonato. Teologia che resiste se non proprio clandestina, ma soffocata, diffidata, scoraggiata dall’ordine vaticano. Anni fa la normalizzazione aveva quasi incatenato Helder Camara, < vescovo rosso > di Recife: fino alla morte costretto al silenzio sul quale le autorità romane vigilavano con l’attenzione del caso. Diffidenza che non cambia: da Helder Camara, memoria lontana, fino all’ultima diffida ( lo scorso marzo ) a Jon Sobrino, gesuita spagnolo sopravissuto al massacro dei confratelli in Salvador. La Congregazione per la Dottrina della Fede gli ha notificato ( anni dopo la pubblicazione dei testi dalla Cittadella di Assissi ) una nota che disapprova la sua lettura storico- teologica di Gesu di Nazareth. E’ stata la diffusione di questi libri nei seminari e in ogni università latino- americana a preoccupare la Congregazione. Censura che sottolinea < notevoli divergenze con la fede della Chiesa, divergenze che possono nuocere ai fedeli >. Sobrino ha riaffermato la fedeltà al Papa difendendo nella forma opportuna le posizioni sostenute nella ricerca. Che non piacce agli integralisti. Chiesa dei poveri troppo sociologica e sempre meno contemplativa, si inquietano i Socci italiani che mai hanno attraversato una favela. E le sette avanzano. E i teologi sconfitti si arrendono. Si sciolgono le comunità dei catechisti laici dal Chiapas alla Patagonia. Ecco il problema: come può Roma governare dall’altra parte del mondo una fuga apparentemente inarrestabile isolando i credenti in una solitudine senza pastori ? Forse mettendo pace nella concorrenza fra le tre componenti alto borghesi che dominano i vertici cattolici in quel continente, e non solo. Riunire in forma culturale omogenea Opus Dei, Legionari di Cristo e Verbo Encarnado argentino, élites sociali moderate con pratica negli affari delle Opere; élites sociali scatenate con università che predicano l’integralismo; ed élites il cui radicalismo sta preoccupando le autorità di Buenos Aires per la violenza di missioni ormai insediate a Roma, in Europa, negli Stati Uniti e proiettate nelle repubbliche ex sovietiche con l’impegno di arginare la minaccia dell’Islam con gli inferni del medioevo. Il ripristino del latino può diventare la base di un dialogo destinato a plasmare una nuova dirigenza cattolica nel continente cattolico che sta perdendo la speranza. Riunire le borghesie guida in grado di contenere gli < eccessi populisti > dei missionari che arrivano dall’ Europa. Se il sospetto fosse vero, il disastro sarebbe più grave dell’abbandono: la contrapposizione di due caste di credenti ai quali la cultura diversa impedisce il confronto. Due lingue incomprensibili che determinano gerarchie inconciliabili. Quasi un’esclusione che ripete le abitudini di certe comunità rom nelle quali gli uomini si intendono in una lingua segreta dalla quale le donne sono da secoli escluse. Nella favela di Iguassu dove un teologo affascinante come Arturo Paoli ha vissuto gran parte della vita prima di ritrarsi a 93 anni fra gli ulivi a Lucca, nessun capirà mai il latino, e nessun prete sarà in grado di usarlo nelle messe e nei funerali, e non solo nelle favelas. Lo racconta Giacomo Galeazzi sulla Stampa di ieri: ad Ancona, Roma, Torino chi è diventato sacerdote dopo il Concilio, la messa latina non l’ha mai studiata. Bisogna dire che a loro e alle favelas di ogni tropico credente, le alte gerarchie consentiranno l’uso sopportato delle lingue ammesse dallo sciagurato Vaticano II. Parole di chi non conta. Liturgia per emarginati. Anche se battezzati, poveretti. In un certo senso restano perfino figli di Dio come il notabile Opus Dei o il Legionario neocon. Purtroppo incapaci di godere la messa trentina e il canto gregoriano. L’Accademia della Crusca latina proverà a perdonarli. Preferiscono la Chiesa della speranza alla Chiesa spettacolo culturale. Chissà perché. mchierici2@libero.it Cortesia dell'Unità

COMMENTI

17 Luglio 2007 16:48

Avendo soltanto 19 anni non ho mai ascoltato una messa in latino ma posso garantire che se questa fosse rimasta in latino, la mia fede non sarebbe forte come ora, nè la domenica avrei avuto voglia di andare ad ascoltare parole incomprensibili. La messa in latino è un passo indietro perchè la messa nella propria lingua natia ridà significato alla messa stessa e diventa strumento per capire ciò che Dio vuole per noi.

Alberto Polito

16 Luglio 2007 23:37

Concordo con quanto letto sulla lettera di Maurizio Clerici in primis perchè ho servito messa dall'età di 8 anni al parroco del mio paesino, Rende in provincia di Cosenza negli anni 50. Ho 62 anni ed ho appreso con gioia del ritorno al latino non solo nella messa ma in quelle celebrazioni ormai poste nel dimenticatoio. E' vero che prima pochi riuscivano a cogliere il vero significato delle parole ma almeno riuscivano a cogliere il profondo significato della "MESSA" e degli altri riti celebrati con raccoglimento e con rigore. Per non parlare poi della mensa eucaristica "la comunione". Si prendeva il corpo di Cristo veramente quando ci si sentiva pronti e preparati dopo una scrupolosa confessione. Almeno così capitava a me ed a tutti i miei coetanei. E' vero che i peccati che erano ricorrenti erano sempre quelli dei cattivi pensieri, rivolti sempre al sesso opposto e così di seguito,i veri peccati mortali erano lungi dall'essere solo pensati. Parlo della maggior parte dei cattolici praticanti. Finisco con un augurio che questo ritorno al latino possa far rivivere quei giorni quando le celebrazioni erano veri e propri riti perfetti dove il tempo non era misurato con cronometro e quanto i sacerdoti predicavano senza guardare l'orologio come avviene oggi in molte chiese. Un cordiale saluto Silvano Marchese direttore della Chorale Beato Domenico Lentini di Lauria (PZ) www.choralelentinilauria.it

Silvano Marchese

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