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18 Aprile 2007 13:21

Il porto come nuova 'violenta' mega-fabbrica

949 visualizzazioni - 3 commenti

di Oscar Marchisio

Il caso drammatico di Enrico Formenti, giovane terminalista di Genova, morto il 13 aprile sotto una balla di cellulosa non è un evento isolato. In nove anni sono accaduti 25 incidenti mortali fra i portuali che diventano 49 se si aggiugono le altre morti sempre in contesto portuale ma di altre categorie di lavoratori: marittimi, operai, camionisti e del settore trasporti in generale. Il lavoro operaio, quel soggetto che alcuni ricercatori e "sociologi"davano per scomparso, non solo è presente e attivo ma muore ancora nella macchina dello sfruttamento. Cosa è cambiato è proprio la "macchina dello sfruttamento"che si è allargata e diffusa a livello mondiale. Persino la Bocconi in un'indagine fatta alla fine degli anni '90 aveva trovato un'acutizzazione degli incidenti e della nocività sul lavoro. Questa indagine relativa solo ai 1000 portuali della Compagnia Unica indicava in 700 infortuni all'anno di varia gravità. Questa intensificazione evidente della "nocività"del luogo di lavoro deriva dal doppio intreccio avvenuto negli anni novanta fra crisi del sindacato e attacco "liberista" e trasformazione del ruolo dei porti. I porti infatti sono diventati una "fase di fabbrica", una "logistica interna"alla megafrabbrica"che avvolge il mondo in una ragnatela di "catene del valore". Altro che internet, questo gomitolo di "reti del valore" si è distribuito su tutto il globo modificando proprio negli anni novanta la struttura fisica della "fabbrica". E' avvenuta una rivoluzione nel layout dei reparti e delle officine per cui si progetta in Italia, si hanno i fornitori nello Zhejiang, si assemblea in Guangdong, si trasporta da Shenzhen a Genova come se fosse una fase interna all'impresa, si fanno i controlli di qualità in Emilia-Romagna e si organizza la logistica della distribuzione in Veneto. Ovvero i porti sono diventati in modo "fisico"degli anelli non del ciclo di fabbricazione e in più sono i connettori sensibili sia dei problemi territorili sia dei "differenziali"di sfruttamento. Nei porti si incontra e scontra il fatto che nella stessa "mega-fabbrica"si incastrano due o più sistemi sociali con all'interno differenziali di salari, tasse, organizzazione legislativa e sociale e per questo i "porti"da luogo di transito delle merci sono diventati i "colli di bottiglia"dell nuova fabbrica. Lì si scaricano gli errori e le difficolta della logistica aziendale e i ritmi insensati che il capitale impone per ottimizzare le catene del valore sviluppate attorno al mondo. Per questo la morte di Enrico Formenti è il segnale da cui partire per trovare il "filo rosso" che lega l'internazionalismo operaio da Genova a Shenzhen al Guangdong allo Zhejiang. Dobbiamo risalire la catena del valore che rappresenta la nuova "mega-fabbrica" ed esprimere la solidarietà operaia fra Genova e i porti del mondo come il conflitto operaio in un solo grande assurdo "reparto" della loro "mega-fabbrica"dello sfruttamento. Rompiamo le "catene del valore", cantiamo insieme di nuovo l'Internazionale.

COMMENTI

18 Aprile 2007 16:55

Spesso nel corso di discussioni, dibattiti televisivi, o incontri di studio, abbiamo sentito parlare della teoria dei ?corsi e ricorsi storici?. L?originale pensatore che elaborò questa teoria, è Giambattista Vico, filosofo napoletano, vissuto tra il 1668 e il 1744. E allora? 1968-2008. Molti,Troppi anni, buttati Ai porci Padroni! Gli anni del letargo e del torpore, SONO FINITI!!! Movimento Operaio e Movimento Studentesco! RIORGANIZZIAMOCI!!! PER MANDARLI A GIUDIZIO E RIPRENDERCI GLI ANNI BRUCIATI DALLE LORO SPORCHE ILLUSIONI. VIA PER SEMPRE!!!LE NUOVE DESTRE E I NUOVI DEMOCRISTIANI! CHE Dio, CI SALVI!!!

pierluigi dattis

18 Aprile 2007 15:17

"Caro Oscar, come sono d'accordo con te! Povero Enrico Formentini, schiacciato dalla bobina e schiacciato dall'indifferenza totale e dall'abbandono di politici ed altre coscenze di sinistra che pensano solo al Nuovo Compromesso Storico ed erroneamente,pensano che i lavoratori siano diventati tutti "colletti bianchi", alla faccia delle "Morti Bianche". Le Lotte Operaie, vanno riprese! Siamo stufi!!! del fumo negl'occhi! Che di Nuovo Suoni L'Internazionale e che si faccia ascoltare in tutto il Mondo!

pierluigi dattis

18 Aprile 2007 15:15

Caro Oscar, per rendere più visibile cosa sia il lavoro oggi nel porto di Genova, per rendere "fisico" il ragionamento che fai nel tuo intervento, qui sotto allego il mio articolo uscito su Left a marzo sul porto. un saluto ..... NON SI AMMAZZANO COSI' NEANCHE I CAMALLI Reportage nel porto di Genova realizzato durante la lavorazione del film ?De Mä, trasformazione e declino? di Pietro Orsatti La nave trasporta tubi di acciaio. Sono lì, sul fondo della stiva, in gran parte sciolti. Per raggiungerli bisogna calarsi per una scaletta ricavata sulla paratia, verticale. Si scende senza una sicurezza. Non ci sono imbragature o corde o moschettoni: si scende e basta. «Qui se scivoli sei del gatto», sospira un lavoratore mentre guarda un suo collega calarsi e aspettando il proprio turno per infilarsi nel boccaporto. Intanto in stiva altri uomini si arrampicano sulle cataste disordinate di tubi, li legano in fasci con delle catene aiutati da un carrello, una sorta di gigantesco muletto, e dato un segnale via radio si mettono il più possibile al riparo con la schiena schiacciata contro le paratie della stiva. L'uomo che trenta metri più in alto controlla i movimenti della gru non vede praticamente nulla di quello che succede sul fondo della stiva, la visuale è completamente nascosta dalle fiancate della della nave. «Una partita a poker al buio». Il fascio di tubi si alza per poi bloccarsi immediatamente incastrandosi in una catasta di tubi più grandi. Dopo frenetiche comunicazioni via radio fra la stiva e la cabina della gru il fascio viene liberato e i tubi, dopo aver disegnato un arco fra nave e ?calata? vengono adagiati sul molo, le catene sganciate e si ricomincia. Il rumore è assordante e in stiva si fa fatica a respirare per la polvere e i gas di scarico che hanno saturato l'ambiente. Non sono ancora le sette di mattina e il sole è ancora basso sul porto di Genova e sui lavoratori della Culvm, la Compagnia Unica dei portuali, i ?camalli?; ben lontani dall'immagine di quei lavoratori che erano l'élite della classe operaia negli anni compresi dalla fine della guerra ai primi '90, organizzati in autogestione, con una forza contrattuale impensabile in qualsiasi altro posto. Gli eredi di chi, a metà degli anni '80, bloccò per un anno intero il porto: «belin, ci cresceva l'erba sui moli». Questa di oggi non è un'élite: sono ?braccia?, precari a cottimo, sottopagati e mandati spesso a lavorare senza adeguati tempi di formazione e sicurezza. Questo è il ?primo turno?, su quattro che coprono interamente le 24 ore. E queste sono ?merci povere?: a malapena 50 euro per rischiare la vita sotto dei fasci di tubi di acciaio. Poco lontano, su un'altra nave, altri lavoratori guadagnano molto di più: ?merci ricche? da scaricare come la cellulosa, e compensi differenti. Si, perché qui esiste ?l'incentivo al cottimo?, su una paga base ferma da più di dieci anni, la differenza in busta la fa il cottimo, cosa e quanto scarichi. In una pausa del lavoro uno dei portuali protesta con un dirigente: «non è possibile lavorare così, da questa parte almeno c'era una scala dall'altra parte non c'è nemmeno quella». Il dirigente cerca di calmarlo, spiegandogli che bisogna andare avanti comunque. Il portuale non ci sta, continua a protestare: «guarda, anche se venisse Prodi a dirmi che si può lavorare... ma che ci vada lui in queste condizioni». A questo punto il dirigente per farsi capire bene racconta di uno sbarco analogo pochi giorni prima, in cui quattro lavoratori non sentendosi sicuri si erano rifiutati di scendere in stiva e quindi prontamente erano stati sostituiti da altri. Tutto per un ?incentivo al cottimo? di pochi euro. «Se si dovessero applicare le norme sulla sicurezza sul lavoro il porto chiuderebbe ? racconta Massimo, un docker di poco più di quarant'anni di cui quasi venti passati in porto ? le navi, i moli, le merci, i container, gli stessi spazi di manovra: non c'è un aspetto dove venga applicata alla lettera la sicurezza. Non abbiamo potere contrattuale sul salario e sul lavoro, figurati se lo abbiamo sulla sicurezza». In poco più di 5 anni 24 morti (fra dockers, marittimi, addetti alle movimentazioni, interinali) e, per quanto riguarda la Culvm alla fine degli anni '90 una ricerca effettuata dalla università Bocconi aveva segnalato che ogni anno si verificavano circa 700 infortuni su mille lavoratori: considerando anche infortuni piccoli la percentuale più alta in Italia. Il porto di Genova sta attraversando una crisi molto grave, inserita in un quadro di declino strutturale dell'intero sistema portuale italiano. A fronte di una crescita del traffico marittimo nel Mediterraneo (si prevede il raddoppio dell'attuale movimentazione entro il 2015/20) e dei porti concorrenti (Barcellona e Marsiglia fra i primi), i porti italiani dal 2001 a oggi si sono letteralmente fermati: tutti crescono, l'Italia no. E non si tratta di necessità di nuove infrastrutture o di costi del lavoro: gli spazi ci sono e il costo del lavoro è praticamente un terzo di quello di Barcellona o di altri porti europei. E' evidente che manca una strategia, una politica per attirare traffici, per organizzare il lavoro e la gestione del mercato: in una parola manca una ?regia?. «Prima della privatizzazione qui si sono spartiti i moli ? racconta Luca Franza, giovane lavoratore della Culvm e mebro del direttivo provinciale della Filt/Cgil ? perché il porto è una barriera naturale, ed è economia e politica. Il sistema porto qui a Genova è un bel teatrino e ogni parte viene recitata da un burattino per ogni specifica posizione che ricopre». E Gianni Cirri della Compagnia Pietro Chiesa che si occupa delle rinfuse (carbone, polveri, etc) è ancora più chiaro: «La prima cosa che fanno appena ottengono una concessione dall'Autorità portuale è cintare tutto, con reti e addirittura con il filo spinato, e sembra quasi di lavorare nella striscia di Gaza». E ognuno lavora per se, senza una strategia comune del porto: la legge 84 del 94 prevedeva una regia ?pubblica? che non viene applicata se non sulla carta, una regia che dovrebbe andare oltre alla gestione degli affitti degli spazi demaniali. «Ci accusavano che la crisi, ai tempi d'oro, era causata dai nostri numeri, dai nostri costi ? prosegue Cirri - Adesso sono mesi che il porto è deserto e nessuno dice niente, un muro di gomma. Se i porti continuano ad essere competitivi è grazie ai lavoratori che siano dei terminal o delle compagnie portuali. Anche perché noi siamo i veri CoCoCo: è dal '92 che siamo in queste condizioni. Qui la legge Biagi è stata applicata prima che venisse decretata in parlamento. Quando ancora nessuno sapeva chi era Biagi qui avevano applicato quelle norme». «A queste condizioni noi non ce la facciamo più ? continua Franza - Ho visto un ragazzo morire schiacciato fra due ?ralle? (ndr: speciali carrelli per il trasporto di container). Lo sai cosa hanno fatto? Ai tempi di mio padre avrebbero smesso di lavorare, avrebbero bloccato il porto. Invece hanno coperto con la segatura la pozza di sangue e hanno continuato a lavorare». Il 16 gennaio 2006 i lavoratori portuali di tutta Europa si sono riuniti a Strasburgo per protestare contro la proposta di una direttiva comunitaria per la liberalizzazione e deregolamentazione dei contratti di lavoro nei porti dell'Unione Europea. Non era la prima volta che si arrivava a forme di proteste anche estreme nei porti: a settembre 2005 le manifestazioni, i blocchi e gli scontri in Francia e in particolare a Marsiglia; a febbraio 2005 mesi di mobilitazione si sono trasformati nel blocco delle operazioni di carico e scarico anche in Grecia; manifestazioni, assemblee, scioperi si sono verificati anche in Olanda, Spagna e in Germania. Le richieste dei docker's erano essenzialmente tre: contratto collettivo e forte limitazione all'uso di contratti stagionali o comunque precari; sicurezza del lavoro e assistenza in ambito infortunistico; riconoscimento e riaffermazione del diritto di rappresentanza sindacale. La direttiva proposta dal Parlamento Europeo, di fatto, intendeva invece intervenire, liberalizzando, ?sull'accesso al mercato dei servizi portuali". Si trattava di una specie di "Bolkestein" destinata ai porti, che mirava a legalizzare l'"auto-assistenza", forma di lavorazione più comunemente conosciuta come ?auto produzione?, cioè a permettere agli armatori di utilizzare il proprio personale marittimo per le operazioni in porto, a cominciare dal carico-scarico merci e dalla manutenzione. Questo trasferendo sulle banchine la giungla di iper-sfruttamento che impera a bordo con l'utilizzo di personale spesso senza diritti perché reclutato con il paravento di bandiere-ombra in paesi poverissimi. Un'operazione, secondo i sindacati europei, che aveva tutto il sapore del dumping sociale e avrebbe aperto la strada a una recrudescenza di incidenti sul lavoro. Dopo un anno di mobilitazione la proposta di direttiva è stata ritirata. Questa protesta ha scosso l'intero mondo della portualità europea, mentre in Italia la notizia passava quasi sotto silenzio: pochissimi lavoratori italiani hanno partecipato alle iniziative di cui nessuno da Genova. Analizzando i punti chiave della protesta diventano chiare le ragione per cui gli italiani hanno sottovalutato l'iniziativa dei sindacati internazionali europei: in Italia, e in particolare a Genova, l'auto-produzione è un fatto comune, diffuso e accettato nei fatti da tutti i soggetti coinvolti: «armatori come Messina e Grimaldi utilizzano normalmente i loro marittimi nelle operazioni di terra ? racconta Franza ? e la legge '84/94 qui a Genova non è applicata. Questa legge prevedeva fra l'altro il contratto nazionale e l'istituto del mancato avviamento. Il mancato avviamento, per intenderci, è una quota del salario, una parte, che viene data al lavoratore a fronte di una mobilità di 24 ore sui quattro turni. Bene, pur di non applicare questa legge a Genova i lavoratori campano di cassa integrazione». «In realtà non bisogna andare poi così lontano per provare che il sistema portuale applicato a Genova fa acqua da tutte le parti ? afferma Luigi Guasco, già sindacalista ora in pensione e per anni segretario del Circolo dei Lavoratori del Porto di Rifondazione ? Mentre Genova è ferma, il terminal di Voltri che è gestito dall'Autorità portuale di Singapore è invece in crescita, il contratto lì è applicato e sembra di essere in un altro mondo anche se Voltri è a una manciata di chilometri. È mancata e manca una strategia di portualità». «Fra il 1983 ed il 2001 oltre 20.000 lavoratori di quelle che allora venivano chiamate Compagnie portuali, Enti e Aziende Mezzi Meccanici sono usciti dal lavoro attraverso provvedimenti di prepensionamento ? si legge in ?Opzione Mediterraneo - Alla ricerca della competitività del sistema logistico italiano oltre l?alibi del gap infrastrutturale? / ANCIP 2006 - La forza lavoro all?interno dei Porti italiani, nell?arco di meno di vent?anni, è cambiata nella misura dell?80%, al punto che oggi l?età media degli addetti presenti nei porti può essere stimata intorno ai 30/35 anni ? e il documento prosegue analizzando il nuovo assetto della portualità italiana - Gli Enti Portuali si sono ritirati da ogni funzione operativa, trasformandosi in Autorità Portuali e le Compagnie Portuali, che operavano come organismi ?di fatto? di natura pubblica, sono diventate imprese di diritto privato, mentre la gestione delle operazioni portuali è stata affidata a società private. E? difficile trovare nel contesto italiano un processo analogo di devolution, di privatizzazione e di apertura al mercato così radicale e contemporaneo». Chi ha assistito, e ha pagato sulla propria pelle questa trasformazione è Danilo Oliva, della segreteria della Filt/Cgil a Genova nell'89, l'anno in cui viene approvato il decreto Prandini e si è dato il colpo di acceleratore per raggiungere la totale privatizzazione del sistema porto genovese. «Se qualcuno l'ha pensata questa cosa ? racconta Oliva - l'ha pensata proprio bene. Perché ci hanno messo sotto, in tutti i modi, senza darci respiro, senza darci il tempo di capire che davanti a questa trasformazione forse c'era unche un modo, delle condizioni a cui noi ci si poteva anche stare». «Quando mi hanno detto che la Compagnia si sarebbe trasformata in un'impresa ? racconta Bruno Rossi, sindacalista storico durante le lotte degli anni '80 e per un breve tempo dirigente della Compagnia genovese ? pensavo che fosse una balla, una presa in giro. E invece è stata l'ultima battaglia e l'ultima sconfitta. Perché ora questi ragazzi sono diventati come soldati, soldati per lavorare. Vivono come le bestie e si fanno male come le bestie». Il porto lavora 24 ore al giorno. Il quarto turno, quello che va dall'una di notte alle sette di mattina, si svolge sotto le luci delle fotoelettriche. E nel buio si muovono i locomotori su binari che sembrano non vedere un treno da più di vent'anni, fra immondizie, scavi, rottami. E invece si lavora, si agganciano vagoni, si caricano container e cisterne. «Si lavora in condizioni di sicurezza minima in linea ? ci racconta Fabio che di mestiere fa il ?manovratore? - noi segnaliamo continuamente intralci, problemi, danni in linea, ma non si fa nulla. Perché dovrebbero fare manutenzione e la manutenzione costa». Fabio ci porta in una zona, quella di San Benigno, dove i container vuoti sono messi anche in sesto tiro (ovvero sei container uno sopra all'altro). «Vedi, basterebbe una folata di vento e uno di quelli verrebbe giù. Ed è successo e solo per cinque minuti non eravamo lì sotto a lavorare. È sempre così».

Pietro Orsatti

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