30 Gennaio
Il territorio dell'indicibile è per sua natura abitato dal silenzio: succede nell'amore, come pure nel suo opposto, l'orrore. Quando le efferatezze si propagano al di là del pensabile, le parole non bastano più. Allora ne inventiamo di nuove, cercando di chiamare per nome -forse per meglio governarle nella mente - le immagini che affollano senza tregua i nostri schermi: televisioni e pc e smartphone. È qui che nasce il domicidio. La casa, che era sorta come rifugio dalla legge del più forte, come luogo di protezione cui consegnare la propria nudità, diventa oggetto di un reiterato esercizio di distruzione, secondo una progettualità di insensata desertificazione. Quello che per i nostri occhi in progressiva anestesia è un cumulo di macerie, per altri era la vita: per la donna che corre come una vestale atterrita per le scale di un edificio sventrato dalle bombe; per il padre che scava a mani nude tra le macerie della propria abitazione alla ricerca disperata di un alito di vita; per il bambino intrappolato sotto le travi di un tetto che si è abbattuto sui suoi sogni; per il vecchio, smarrito custode di memorie infrante.
Domicidio è la parola nuova di questo primo tempo dell'anno nuovo. Parola tagliente come una spada, parola in cui il primo elemento (domus) restituisce l'immagine della casa e del riparo, mentre il secondo (dal verbo latino caedo) ci parla del suo opposto antropologico: l'annientamento, la distruzione, la strage. L'uccisione.