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15 Gennaio 2010 00:11

L'America ai tempi di Obama. Un'analisi dalla prospettiva di un condannato a morte nativo americano

924 visualizzazioni - 0 commenti

di NADiRinforma

Un'analisi dalla prospettiva di un condannato a morte nativo americano

«La vera grandezza di un uomo non è la posizione che prende al momento dell’agio e della convenienza, ma quella che prende in tempi di sfida e di conflitto» Martin Luther King Jr.

Queste parole furono pronunciate molto tempo fa, quando gli Stati Uniti erano attraversati dalle
lotte dei movimenti per i diritti civili: non di una sola razza umana, ma di molti popoli etnicamente diversi che costituiscono una buona porzione della popolazione statunitense. Il principale tema che infiammava tutte quelle proteste era l’ingiustizia dovuta al «razzismo».

Nel novembre del 1963 avevo tredici anni e frequentavo le scuole medie, quando una ragazza entrò nella nostra aula di musica per annunciare che il presidente Kennedy era morto. Per me era solo la morte di un presidente. Essendo un adolescente mi era difficile, in quel grave momento della storia americana, afferrare l’enormità di tutto ciò. Soltanto quando furono assassinati due uomini, Martin Luther King Jr. e Robert Kennedy, il mito di un paese ritenuto «la terra dei liberi e la casa dei coraggiosi» mi parve essere solo una farsa. Eravamo stati educati a credere che le leggi fossero fatte valere per tutti con equità, ma in realtà non era così.

Il razzismo era una parola di cui non avevo mai sentito parlare, non sapevo che esistesse. Solo quando iniziai le scuole superiori cominciai a capire cosa fosse e compresi che era stato imposto a me e alla mia famiglia, per sempre.

Crescendo in un mondo razzista e soffrendo per questo, prende forma nella nostra mente la convinzione che è l’«uomo bianco» a comandare, e che nulla potrà mai cambiare questa realtà. Il razzismo non andava messo in discussione, ma solo sopportato.

Essendo vissuto tanti anni con questa idea, credevo fermamente che un uomo nero o di qualunque altra minoranza etnica non sarebbe mai diventato presidente. Così, è stata una sorpresa incredibile per me che Barack Obama abbia vinto le elezioni diventando presidente degli Stati Uniti.

Nel braccio della morte

Essere detenuti nella prigione di stato di San Quentin, o in qualunque altra prigione, non ci impedisce di provare interesse per quello che succede nel – e al – nostro paese. Nonostante le nostre manchevolezze e colpe, noi detenuti seguiamo sia le elezioni che la politica, e le nostre opinioni sono diversificate come quelle della società libera. Molti credevano che un nero non sarebbe mai stato eletto presidente, mai! Quando Obama è stato dichiarato vincitore, nel nostro carcere c’è stato un tremendo grido di esultanza, soprattutto dei detenuti neri. Noi altri eravamo attoniti! Anche qui dentro, l’atmosfera era divisa dalla razza.

Ora che un nero è diventato presidente degli Stati Uniti, che cosa significa questo per noi detenuti? Finora non molto. Ci saranno cambiamenti? Probabilmente no. Per i politici le nostre opinioni non valgono un granché, la nostra voce non è udibile. Non importa quanta pioggia pulita cade su una prigione, questa odorerà sempre di umanità segregata.

Per i detenuti nel braccio della morte, avere un presidente bianco significava che la pena di morte non sarebbe mai stata abolita a livello costituzionale. I politici valutano troppo i loro incarichi di governo e la loro reputazione, per correre rischi favorendo i detenuti in qualsiasi modo. I candidati alla presidenza, che sono anche governatori di stati in cui vige la pena di morte, non sono mai clementi con un condannato, perchè commutare una condanna a morte significherebbe per loro una sconfitta elettorale certa. Sembra che, negli Stati Uniti, un governatore per candidarsi alla presidenza debba avere le mani lorde di sangue. Fortunatamente per Obama, non ha avuto bisogno di questo requisito. Un uomo di sangue misto, ha imparato a sfruttare le sue due facce per incantare entrambi i mondi.

È difficile dire quali siano le opinioni del presidente Obama sulla pena di morte. I detenuti in California non hanno accesso ai computer per cercare informazioni. Da parte sua non c’è stato alcun accenno alla pena di morte, figuriamoci se ha parlato di abolirla. Se desidera essere rieletto tra quattro anni, si terrà a debita distanza dall’argomento. Qualunque sua dichiarazione verrebbe gonfiata smisuratamente e usata contro di lui.

Il presidente Obama è sotto attacco da parte di conservatori e Repubblicani sin dall’inizio della sua candidatura. Tutti i presentatori dei talk-show di destra hanno fatto osservazioni volgari e sgradevoli su di lui, accusandolo di corrompere i valori di questo paese. In realtà, semplicemente, non volevano che un nero fosse presidente. Ecco la bruttezza del razzismo, e fingere che non sia così non servirà a farlo scomparire. È questa la società, è questa la politica in cui vive oggi la popolazione degli Stati Uniti.

La costituzione e il razzismo

Siamo, o almeno eravamo, una nazione di ideali etici. In passato il nostro governo ha cercato, sia pure in modo imperfetto, di promuovere quegli ideali. Quando è nata, la costituzione degli Stati Uniti mirava a creare un paese che mettesse il bene comune al di sopra dei pregiudizi e dei sentimenti personali. Un ideale nobile, è il minimo che si possa dire. Ma gli ideali non cambiano le macchie del leopardo! Lo stesso vale per i razzisti. Razzisti non si nasce, si diventa. L’odio per una razza diversa è nutrito sin dall’infanzia e si trasforma in violenza, conflitto e paura.

Tutti noi combattiamo con i nostri conflitti interni: sessismo, discriminazione in base all’età, razzismo ecc. Le politiche sono strumenti importanti per sfidare le nostre debolezze, le nostre paure e le nostre incomprensioni nei confronti delle altre persone.

Ostacolare lo sforzo di ridurre o eliminare l’oppressione e la discriminazione – siano esse insidiose o, a volte, esplicite – imposte a un gruppo o a una classe di persone solo perché diverse, fa di noi dei fanatici non migliori dei fanatici più sinistri della storia. Le atrocità di Hitler sanguinano ancora oggi. Non è un’eredità che l’America voglia interpretare o sostenere, ne sono certo. Ma il fanatismo trasuda dai pori dell’America e del mondo. Ora che è alla Casa Bianca, il presidente Obama può cercare di porre fine a questi giorni di razzismo e sostenere il tentativo di tutto il paese di valutare le persone per il loro carattere, non per il colore della loro pelle.

Il razzismo è come un cancro nella nostra società che non può essere curato, e nemmeno trattato. Certamente è un grosso fattore di polarizzazione delle persone e della politica, soprattutto ora che l’America ha un presidente nero. Che cosa ci dice questo, sulla qualità dei politici che rappresentano il popolo? O sulla polarizzazione che si è verificata ai livelli più alti del nostro governo?

Durante l’amministrazione Bush, la paura e l’inganno erano le principali forze usate per promuovere politiche estremistiche e, a volte, criminali. La paura era usata per politiche irrazionali le cui conseguenze hanno cambiato la natura della nostra democrazia. La paura distorce qualunque senso realistico dei rischi che corriamo. Le leggi dovrebbero essere fatte rispettare, non ignorate per convenienza.

Il bene superiore dell’America è totalmente sostituito dalla fedeltà di un gruppo all’idea secondo cui una parte ha ragione, mentre l’altra ha torto e la sua distruzione è necessaria, con qualunque mezzo. Anche se quella distruzione fa perdere alla nostra nazione il rispetto e l’idealità morale, e infine la fa decadere.

Nuove aspettative

Il presidente Obama sta cercando di far funzionare meglio il nostro governo e il nostro paese, mettendo fine a vecchi tabù secondo cui solo i bianchi possono governare l’America. Egli preferisce l’elevazione allo scontro. Ma non è facile per lui, perché molti hanno vissuto l’elezione di un presidente nero come uno schiaffo. Queste persone rifiutano di abbandonare le loro posizioni di presunta superiorità. Rifiutano di ammettere che la maggioranza della gente non ne può più della «solita politica». Che il bene superiore del paese è più importante dei desideri egoistici di pochi. Personalmente, sono felice che una maggioranza silenziosa abbia fatto un atto di coraggio e si sia schierata contro l’arrogante «status quo» della presidenza a un bianco. Specialmente dopo gli abusi degli ultimi otto anni.

Speriamo che il presidente Obama riconquisti la nostra bussola morale, per il bene della nostra coscienza nazionale. Egli sta introducendo nuove politiche che avranno conseguenze profonde, con lo scopo di evitare il ripetersi del degrado morale. Ha affidato importanti incarichi di governo a persone appartenenti a minoranze: probabilmente l’unica volta che questo accadrà mai. Il presidente Obama ha fatto di questo la sua sfida, ed è una sfida che tutti noi condividiamo.

Attraverso questo nuovo approccio presidenziale è tempo di ripensare completamente alle nostre divisioni ed essere più che desiderosi di vedere l’altra faccia della medaglia, operarando con maggiore libertà dalla morsa del razzismo. È questo ciò che serve per cominciare un processo di costruzione di una società meno conflittuale. Un cambiamento utile per aumentare la comunicazione e arrivare fin dentro il nostro cortile, ricostituendo relazioni responsabili non solo all’interno dell’America, ma anche tra i diversi paesi. I benefici positivi supereranno gli eventuali effetti negativi. Dobbiamo farlo per il nostro futuro, e per ritrovare le nostre anime.

Obama ha mostrato l’importanza di cambiare gli atteggiamenti delle persone e di puntare su relazioni ispirate all’interesse comune: riconoscere che, nel nostro stesso interesse, è cruciale superare le preclusioni nei confronti delle nostre differenze. Non abbiamo garanzie che ci sarà collaborazione, l’ego è duro a morire. Ma questo percorso favorirà le prospettive di un compromesso positivo e propositivo.

C’è una luce all’orizzonte. Speriamo che, come il sole, essa possa gettare un nuovo raggio sull’oscurità di un paese.

«La sola cosa che sta tra i politici e il popolo è chi ha le armi e i distintivi. Le costituzioni sono solo parole».


Fernando Eros Caro

http://www.myspace.com/fernandoeroscaro

 

Traduzione: Marina Impallomeni

Scheda di Fernando Eros Caro

 

Fernando Eros Caro è un nativo di ascendenza yaqui, rinchiuso da più di 25 anni nel braccio della morte di San Quentin, in California. Pittore autodidatta, le sue opere sono una testimonianza contro la barbarie della pena capitale e sono state già esposte in molte città del mondo.

Su Caro sono già usciti svariati articoli e reportage ed il suo caso è stato ripreso in trasmissioni radiofoniche e televisive. Nel 2007, sull'emittente La7, è stato trasmesso il documentario “il Miglio verde – lettere dal braccio della morte”, che raccontava una visita di Marco Cinque http://www.myspace.com/cinquemarco (suo fratello adottivo e portavoce in Italia) al prigioniero amerindiano, nel famigerato braccio della morte californiano.

Il detenuto yaqui è in corrispondenza epistolare con molti “pen friend” di ogni età, sia in Italia che in Europa, ed è in contatto anche con svariate classi scolastiche. Già autore, assieme a Ray “Running Bear” Allen, dell’epistolario Prigionieri dell’uomo bianco, uscito in Italia con le Edizioni Kaos, Caro pubblica ora Saai Maso (fratello Cervo) – racconti yaqui e poesie, un volumetto che si propone sia come fonte di divulgazione della cultura e dei retaggi dell’autore che come occasione per realizzare iniziative multimediali nelle scuole e nel vivo del tessuto sociale. È paradossale pensare a come una persona condannata a morire, invece di preoccuparsi della sua tragica vicenda, si stia piuttosto impegnando a mantenere viva la cultura orale e i retaggi del suo popolo. Il libro, curato da Marco Cinque, è stato realizzato da Claudio Celletti, dell'Associazione non profit Wicasa Onlus di Cave http://www.myspace.com/427418760, che ha finanziato la stampa con i proventi di un torneo (UISP) di calcetto per giovani. Tutti i proventi ricavati dalla vendita di libri e dipinti, sono destinati interamente alla causa di Fernando.

Per ordinare il volume:

claudio.celletti@libero.it

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